Cosa bolle nel pentolone dell’eversione?
Non c’è che dire: la nebulosa in cui brancola questo Paese la si evince persino dalla Storia. Basta guardarsi attorno per capire che abbiamo perso anche la nostra autocoscienza. Le nostre elementari categorie di pensiero. I giornali s’ostinano a ridefinire brigatisti e brigatismo. Anarchia e anarchismo. Nomi, sciocchi nomi, di fatto svuotati, come un soldatino senza base d’appoggio. Semplifichiamo tutto. Trattiamo il sociale come un inventario da magazzino. E applichiamo il pedestre metodo persino al terrorismo. Il paragone potrà apparire irriverente. Quasi blasfemo. Ma rispolverare, oggi, il termine Br è come chiamare un pc calcolatore o la liquerizia regolizia. Siamo fuori dal mondo. Il brigatismo nasce sull’humus di classi completamente diverse. E, come tale, va applicato a un contesto di diversa composizione sociale. Oggi, semmai, possiamo parlare di lotta armata. Ma l’ignoranza o l’accalappiaattenzioni si concentra sul veterovocabolario per rincretinire i lettori. Si raggiunge il ridicolo quando si vanno a ricontattare certi dinosauri degli anni Settanta. Che pontificano: la lotta armata non esiste più. E’ solo qualche fuoco di paglia. Le scimmiette ammaestrate cantano un ritornello voluto dai pompieri della sicurezza, da coloro che la tensione vogliono gestirla come elefanti. Che ne sanno questi signori che sono solo gruppi isolati? Ne hanno forse il polso o l’esperienza per affermarlo? Perché, se così fosse, sarebbe piuttosto grave. Dunque: brigatismo, come categoria nominale, non ha senso. Ma lotta armata, purtroppo, sì. E non c’è neanche da credere che sia troppo isolata. I proclami dalle gabbie di quelli che ci si ostina, stoltamente, a definire Br, sono un segnale chiaro e preciso. Occhio. Non sottovalutiamo. La belva ha mutato pelle. Superficie. Volto. Ghigno.
Non ha senso procedere per luoghi comuni, ma allarmarsi sì. E capire pure. Perché è qui che difettiamo: applichiamo al nuovo ciò che è vetusto. E, allo stesso, modo vogliamo sottovalutarne la portata. Che è piuttosto invasiva. Riappaiono simboli, scarabocchi, che, alla superficie, non valgono nulla, ma nel profondo sono una spia del fuoco. E, per carità, non ritiriamo in ballo fantomatici eserciti e linee dure che sanno, quelli sì, d’altri climi. Capiamo, prima. Studiamo. Poi, agiamo. Vediamo ciò che non va. Senza offrire il destro a qualche folle (ma non isolato) che predica che la lotta sta per ricominciare. Non lasciamo che le parole (e, purtroppo, i fatti) trascinino nella corrente propositi populistici e rivoluzionari. La nuova eversione ha radici verdi e profonde. E’ contigua alle più becere forme di violenza, incontrollate, emulative, inconsapevoli e, per questo, più schizofreniche. E’ un lungo percorso, almeno un decennio. Che nasce ai margini della società, di movimenti globali fin troppo facilmente repressi e risentiti. Chi è prigioniero, poi, cova sul pessimismo, in un’onda lunga di disperazione che s’amplifica a suon di azioni più o meno violente. Riprendiamo la bussola della storia. Riapprofondiamo quello che ci circonda, senza aggrapparci a simboli pieni di nulla. Così capiremo. E, forse, ricacceremo indietro i singulti violenti d’una crisi. Innegabile.