‘Quello che non ho’, l’occasione persa di Fazio e Saviano
Eccomi, sono pronta. Sono pronta ad attirarmi gli strali di tre milioni di telespettatori, quei tre milioni (migliaio più migliaio meno) che hanno seguito le tre puntate di ‘Quello che (non) ho’ di Fabio Fazio e Roberto Saviano, andato in onda su La7. Sono pronta ad affrontare l’ira di quell’oltre 12% di share, ma permettetemi di dire che il programma non è stato il grande evento che in molti si attendevano. Intendiamoci, rispetto a certe trasmissioni del dolore, a finti reality in cui il televoto può annullare qualsiasi talento, a fiction dalla trama inconsistente e dalla pessima recitazione, a quiz demenziali e talk-show con politici di lunghissimo corso, ‘Quello che (non) ho’ si erge come un faro luminoso. Rispetto alla tv trash, però. In termini assoluti, invece, il programma di Fazio e Saviano non è stato nulla di eccezionale: pecca di originalità (ricorda troppo il precedente ‘Vieni via con me’), vanità e autoreferenzialità.
Per fare buona televisione non basta mettere insieme gli esponenti della cosiddetta ‘intellighenzia’ italiana, affidar loro un tema e lasciarli parlare; così come non è sufficiente prendere fatti di cronaca e ripercorrerne le fasi salienti per fare una buona informazione. Ovviamente ci sono eccezioni: ad esempio, Saviano si è riscoperto abile narratore quando ha raccontato la strage di Beslan (lo stesso pathos non lo ha concesso invece alla primavera araba), Massimo Gramellini si è dimostrato sempre sagace (specialmente quando ha descritto le dubbie “benemerenze” del boss della Magliana Renato De Pedis), Luciana Littizetto è stata da applausi nel denunciare la violenza sulle donne (per inciso anch’io ritengo che, alle volte, “ci sono cose che si risolvono solo con un vaffa…”). Tuttavia si tratta di sprazzi di luce, come quelli che un faro – appunto – getta intorno a sé ruotando.
Personalmente, ‘Quello che (non) ho’ mi è sembrata soprattutto un’occasione persa da Fazio e Saviano, grandi signori della parola nonché dell’empatia con il pubblico. Arroccata sul passato dolce (nei ricordi di Claudio Magris, Pupi Avati o Ermanno Olmi) o drammatico (quello della partigiana Olga o della vedova di un operaio dell’Eternit), la trasmissione non ha concesso nulla alla fiducia, alla speranza e soprattutto al futuro. Elementi di cui, mai come in questo periodo storico, la nostra società avrebbe davvero bisogno.