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I miei Eroi di Monaco (1)

Pensando a Montecarlo che si avvicina, mi sono reso conto di una cosa.

Ohi, ormai è quasi un quarto di secolo che mi materializzo nel Principato.

Roba da matti. O, forse, roba da rincoglioniti.

Comunque, in un quarto di secolo uno vede tante cose. Sorvolando su faccendieri/biscazzieri/latitanti/evasori fiscali/cialtroni eccetera, ecco una galleria dei miei Eroi di Monaco. Senza alcuna pretesa di condivisione da parte del lettore.

1) AYRTON SENNA.

Non posso cercare di convincere chi si ferma al gelo dei numeri. Semplicemente, per la mia generazione e nella mia vita di guardone da box, ecco, Ayrton è stato il più grande di tutti.

Nel suo caso, la tragedia precoce non ha aggiunto nada ad un talento pazzesco, che a Montecarlo si esaltava.

Io ero suo amico e dopo il primo maggio del 1994 non ho più voluto un amico tra i piloti di F1, perchè nel peggiore dei casi l’esperienza è semplicemente troppo dolorosa.

Ho visto Ayrton vincere a Monaco nel 1992 e nel 1993, con una McLaren che non era certo all’altezza della Williams dell’epoca. Fortuna? Anche, ma lui era lì.

E nel 1993 Senna e Schumi avevano lo stesso motore 8 cilindri e andate a vedere i risultati di quella stagione, a parte la Williams di Prost.

Ci sono cose definitive.

Simply the best. Tina Turner version.

2) LEWIS HAMILTON.

Va bene, va bene.

Sento già urla dei Cloggari incazzosi.

Ma come? Ma perchè? E che ha combinato il Nero di tanto nobile, sulle stradine del Principato, da meritare una simile posizione?

E mò te lo dico.

2007.

Chi cappero è questo Ham?

E come si permette?

E perchè osa?

E non lo sa di essere un debuttante?

Oh, certo.

Dovettero fermarlo via radio, quelli della McLaren.

Se no, passava sopra le orecchie di Alonso, magari in mezzo al tunnel.

Piglia su e porta a casa.

3. MICHAEL SCHUMACHER.

Senti, lettore.

Ti risparmio il 2006 del parcheggio alla Rascasse.

E non mi appello alle cinque vittorie e alle altre sfumate non per colpa del diretto interessato.

No no no.

Io ho capito chi era lo Zio in una domenica piovosa del 1996.

Cristo, quanta acqua.

Lui stava in pole. Al primo anno da ferrarista.

Attesa spasmodica, mostruosa, una roba che oggi i mezzibusti Rai si bacerebbero i gomiti, se per la F1 ci fosse ancora un tale seguito, popolare e non solo di cifre Auditel.

Dunque.

Semaforo verde.

Passa da Santa Devota. Bene.

Poi, ecco, dal monitor della sala stampa scompare il nome.

Michael Schumacher, Ferrari. Sparito.

Non c’è più.

Roba da matti.

Si era schiantato non so dove.

Come un babbeo.

E dici che è un grande?

Di più.

Dico che è un grandissimo.

Infatti, nove volte su dieci, in casi del genere i drivers ti confezionano la scusetta, l’alibi, ohibò, l’errore tecnico, la sfiga planetaria, l’invasione delle cavallette, la morte improvvisa della zia (che, nel caso del Zio, ci stava pure), eccetera.

Lui no.

Piove a randello.

Arrivo da Schumi in mezzo ad una muta di cronisti inzaccherati.

E lui fa: abbiate pazienza, ho fatto una puttanata mostruosa, sono l’unico responsabile e chiedo perdono a tutta la gente che lavora con me e per me.

Stava in Ferrari da meno di sei mesi.

Ci sono episodi che, a distanza di tempo, ti aiutano a comprendere perchè, poi, sono successe tante cose.

(1, continua)