Tagliare gli sprechi (degli altri)
Dura vita da premier: se fa sbaglia, se non fa sbaglia comunque. Nel dubbio, Mario Monti riporta bruscamente l’Italia post europei con i piedi per terra. E ricorda a tutti che c’è un conto ancora da pagare perché — dice il viceministro Grilli — siamo ancora “sorvegliati speciali”.
Il ritorno alla realtà si materializza con la spending review, la revisione della spesa pubblica. Che è come la bella Cecilia: tutti la vogliono, nessuno la piglia. Quasi un remake del film visto con i termovalorizzatori o le liberalizzazioni: gli impianti? Sì, ma non nel mio giardino. La concorrenza? Cominci qualcun altro. I tagli? Sacrosanti, ma non a me. Ieri protestavano taxisti e farmacisti, notai e banchieri, oggi — annunciata con anticipo — si manifesta l’ira dei sindacati in difesa degli statali e, insieme a sindaci e governatori, a tutela di scuola e sanità pubblica.
Interessi sacrosanti, per carità, che toccano la carne viva di tutti. Ma siamo sicuri che ciò abbia a che fare con la revisione della spesa pubblica? Andiamo per gradi. È comprensibile che a nessuno piaccia stare dalla parte sbagliata delle forbici. I primi a non gradire sono i cittadini: se stanno male chiedono buona sanità e sono preoccupati che i tagli li lascino senza cure o che debbano sborsare più soldi per visite ed esami.
Se hanno figli che vanno a scuola, ovviamente, temono che riduzioni di spesa si traducano in meno qualità. Se utilizzano il trasporto hanno paura del rialzo delle tariffe. Se aboliscono le province possono temere che nessuno farà manutenzione alle strade. E a sostenere i timori dei cittadini arrivano puntuali le certezze dei tagliati: siete voi a pagare, giù le forbici. Quasi mai, però, si completa il ragionamento facendo i conti con i chiari di luna e la montagna degli sprechi. Andando avanti così i servizi sono destinati a essere cancellati per una ragione banale: non ci sono soldi.
La scommessa è altra: dare servizi sprecando meno. Cacciando gli incapaci e promuovendo i migliori. Tagliando dove c’è da tagliare. Che poi è la vera differenza tra gli interventi lineari (stessa dose di purgante per tutti, a prescindere) e spending review.
Il ministro Piero Giarda, tempo fa ha fornito numeri significativi: su 650 miliardi di spesa pubblica 300 sono aggredibili. Due terzi di questi ultimi fanno capo allo Stato, l’altro terzo agli enti locali. La spesa sanitaria — ha spiegato — è cresciuta dal 32 al 37% mentre quella per la scuola è scesa dal 23 al 18%. L’istruzione, insomma, ha pagato il conto per la salute. Solo nell’interesse dei cittadini? La Corte dei Conti ha parlato di 60 miliardi di sprechi. Ma il dato chiave è questo: in 30 anni i costi di produzione dei servizi pubblici sono aumentati del 30% in più rispetto ai costi di produzione dei servizi privati. “Una maledizione” pagata con “l’aumento delle tasse”.
Lo Stato, insomma, spesso si occupa di ciò che non dovrebbe, e lo fa pure male. Numeri duri che si aggiungono ai duemila miliardi di debito pubblico e a un sistema paese che — con rare eccezioni — solo costretto dalla crisi sta facendo i conti con la non crescita. La cura inflitta dal governo Monti ha toccato duramente molti italiani: lavoratori e imprese in primo luogo. Gli interventi fiscali sulla casa sono, nei fatti, una mini patrimoniale. L’aumento dell’Iva ha colpito i consumi. Ora il conto — rimandato nei decenni con la sola parentesi della cura Padoa-Schioppa — arriva nella pancia dello Stato. Possibilmente senza macellerie sociali. Le misure in cantiere valgono circa 10 miliardi. Dovranno essere giudicate solo in base a un criterio: se riusciranno a garantire ai cittadini risposte e servizi spendendo meno e in modo più efficiente. Solo questo conta.