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De Gasperi, un austriaco a Roma

Prostrati come siamo dall’annoso ed infruttuoso sforzo di costruire istituzioni moderne in uno Stato forte ed efficiente, dimentichiamo che quel che vorremmo essere in realtà già fummo. E’ accaduto nei primi otto del dopoguerra, gli anni di Alcide De Gasperi. Gli anni della costruzione democratica e della ricostruzione economica: niente a che vedere con l’Italia ingovernabile e partitocratica che, con Fanfani, si affermò dal ’53. La spiegazione è duplice. Primo: non erano ancora in vigore i contrappesi costituzionali al governo, sì che il presidente del Consiglio italiano aveva (di fatto) poteri simili a quelli del premier britannico. Secondo: capo del governo era non un arcitaliano, ma, come lo bollò Mussolini, «un austriacante». O meglio, un austroungarico. Uomo di Stato più che di partito, perché animato dal patriottismo e dal culto per le istituzioni di chi è nato italiano nell’irredento Trentino. Uomo di austera cultura asburgica, perché formatosi tra le università di Innsbruk e Vienna.
«Sento che tutto, tranne la vostra cortesia è contro di me», disse De Gasperi ai rappresentanti dei paesi vincitori della Seconda guerra mondiale riuniti a Parigi nel ’46. Ma, aggiuse, «io ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano». E a quel dovere scrupolosamente si attenne. Perciò visse come un’umiliazione nazionale il diktat imposto all’Italia col Trattato di pace. Perciò, pur essendo un cattolico militante, tra Stato e Chiesa scelse sempre il primo. Ad esempio, resistette alle pressioni del Papa per costituire, con l’«operazione Sturzo», una coalizione spostata a destra in occasione delle amministrative di Roma nel ’52. Pio XII la prese male, e gli negò un’udienza già fissata. Ineccepibile la replica: «Come cristiano accetto l’umiliazione, benché non sappia come giustificarla, come presidente del Consiglio e ministro degli Esteri la dignità e l’autorità che rappresento, e dalla quale non mi posso spogliare, mi impongono di esprimere stupore per un rifiuto così eccezionale e di riservarmi di provocare dalla Segreteria di Stato un chiarimento». Non era Andreotti, De Gasperi. Anche se, dopo averlo definito «un genio del compromesso», Andreotti ben ne descrisse lo spirito con queste poche parole: «Intransigenza ferrea nei principi e nelle linee strategiche… ma grande pazienza e duttilità nella ricerca di ampi consensi». Insomma, era un realista. Un politico pragmatico cui mai sfuggì il peso reale delle forze in campo. «Se non fosse stato cattolico, sarebbe stato un Metternich», osservò il democristiano Igino Giordani. E fu col realismo di un Metternich che De Gasperi collocò l’Italia nel cuore dell’Alleanza atlantica, volò negli Stati Uniti a reperire risorse, esaltò l’Europa sperando di sublimare i limiti nazionali, escluse i comunisti dal governo, incoraggiò la stesura di una legge elettorale fortemente maggioritaria (la ‘legge truffa’), modernizzò il Paese e soprattutto gli assicurò quella stabilità politica che è il presupposto per la crescita economica. Fece, insomma, più o meno quel che oggi ci si aspetta da Renzi.
Tuttavia, De Gasperi era un uomo solo. Solo perché diverso. Diverso perché attaccato a un’idea di Stato incompatibile col crescente spirito partitocratico, clericale e consociativo. Alle politiche del ’53, la Dc perse 8 punti. Il capo dello Stato, Luigi Einaudi, gli affidò l’incarico di formare il governo, ma partito e alleati gli resistettero. De Gasperi fallì. In aula, l’onorevole Lucifredi lo sentì mormorare: «Popolo italiano, dove sei? Qui dentro contano solo i partiti». Morì improvvisamente il 19 agosto dell’anno successivo, e con lui si spense il sogno di un’Italia un po’ meno ‘italiana’ e un po’ più ‘asburgica’. Nel sessantesimo anniversario del decesso, indossiamo dunque un doppio lutto: per l’uomo e per l’idea di Stato da lui incarnata per otto anni. Otto anni da sogno.