Quel renziano di D’Alema
I tempi sono stretti, non è sicuro che Matteo Renzi possa incassare già martedì prossimo il voto finale del Senato sul Jobs Act per poterlo esibire come un trofeo al vertice europeo sul lavoro che si svolgerà a Milano il giorno successivo. Tuttavia, nessuno dubita che, magari ponendo la fiducia, la riforma passerà. E a renderla credibile sarà stata proprio la levata di scudi della vecchia guardia dalemian-bersaniana. Se la direzione del Pd avesse approvato all’unanimità l’ordine del giorno sulla riforma del lavoro scritto dal renziano Taddei, sarebbe rimasto in molti il dubbio di una riforma di compromesso. Al ribasso. Intendiamoci, un compromesso, fortemente voluto dal Quirinale, in realtà c’è stato. E infatti tutti hanno notato nel discorso del segretario-premier un cambio di registro sia nei toni (la disponibilità ad aprire un tavolo con i sindacati) sia nei contenuti (la reintegra di chi è licenziato per ragioni disciplinari). Ma l’impianto della riforma è salvo. Le resistenze della minoranza — peraltro, anche su questo, divisa — sono dunque funzionali alla narrazione renziana. Matteo Renzi teorizza e pratica la rottura rispetto al passato, intende rinnovare la sinistra, ma, a differenza di Tony Blair, non ha avuto il tempo di cambiare il partito da segretario. E’ dunque costretto a farlo da premier, con atti concreti di governo. E quanto più i D’Alema, i Bersani e le Camusso se la prenderanno a male, tanto più l’opera di rinnovamento apparirà credibile. E’ anche per questo che ieri Renzi ha detto che «se D’Alema non ci fosse, bisognerebbe inventarlo». La popolarità del premier, infatti, è legata al suo profilo di combattente politico: più la battaglia si fa dura, più la popolarità aumenta. Ma perché la battaglia sia comprensibile agli occhi di militanti ed elettori occorrono nemici in carne ed ossa. «Le banche», «la burocrazia», «l’Europa», «i magistrati» e «i commentatori» non lo sono. Lo è invece Massimo D’Alema. Nemico «storico» e alquanto usurato, ma comunque riconoscibile. Non è un caso che da quando nel Pd è esplosa la polemica sull’articolo 18 il partito sia tornato a crescere nelle intezioni di voto degli italiani. «Ogni volta che D’Alema parla guadagno un punto nei sondaggi», ha detto ieri Renzi. Ma non era la solita guasconata, era un’analisi realistica.