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TEATRO / Gli scheletri nei nostri armadi e quel miracolo di Franceschi. Segue dibattito

vittorio-franceschi-seguedibattito-manifestoMetti una una sera a teatro. Una di quelle buone: fuori ci sono 15 gradi, nonostante gennaio. Dentro (Arena del Sole, Bologna) la sala, piccola, semicircolare, accogliente, è quasi al completo. Il testo (‘La dimensione del nero’, anno 1972, di Vittorio Franceschi) è scritto benissimo: fresco, arguto, veloce, divertente. Una comicità irresistibile in superficie, dalla quale partire ogni volta per implicite considerazioni sulla società civile.

La società, a proposito, sembra quella odierna, e invece è di 50 anni fa. Quando Franceschi, sotto commissione, scriveva quest’opera, fuori impazzano le proteste di piazza. Le Brigate Rosse diffondevano i primi volantini in fabbrica, la tensione c’era già, le bombe pure.

Nelle case degli italiani, a quei tempi – e per quanto ancora – protagonista assoluta era la ‘famiglia democristiana’. Radici contadine e borghesia cittadina, conquistata di recente, come i protagonisti di questa commedia. Il marito, il ragioniere Paride Paride – stesso nome, stesso cognome – è un dipendente pubblico, democristiano devoto, forte coi deboli e pavido coi potenti. Ce l’ha con il crimine, i prevaricatori, i senza dio. E brandisce a ogni frase ideali profondi, ricordando che sono frutto di una Resistenza che però, lui, si è ben guardato dal combattere.

Lui che è stato assunto alla compagnia del gas con la raccomandazione di un assessore al turismo, corteggiato grazie a un trittico del ‘400 che stava lì, ‘abbandonato’ in una chiesa di campagna. I suoi saldi ideali, si diceva, vengono lasciati in braghe di tela all’alba di un giorno come tanti, per via di uno scricchiolio nell’armadio della camera da letto. Chi va là? Un ladro? Un animale? Un demone? No, un fascista! Tutti ne abbiamo uno nell’armadio, ci provoca l’autore. Solo che questo qui è in carne e ossa.

Come sarà finito nell’armadio dei Paride e, soprattutto, cosa farne? Le donne – sua moglie Bice, che tanto avrebbe voluto suo marito capoufficio, e la figlia Matilde, che studia all’università ma in realtà smania per trovare un marito facoltoso – urlano impazzite a Paride di scacciarlo. Ma forse no, meglio che no, che scandalo sarebbe? E poi, in fondo, tutti hanno diritto di esprimersi, è la democrazia: sono o non sono anche i tempi di Almirante e del ‘Missi’?

E’ la premessa a una escalation devastante di dialoghi surreali, con personaggi che di volta in volta spuntano alla porta, quasi si fossero dati tutti appuntamento lì. La sorella comunista rimasta a vivere in campagna, il prete col suo chierico, l’assessore al turismo di cui sopra, l’aristocratico padrone di casa. La situazione degenera presto, e in più il fascista è sempre lì dentro, mentre il palco si affolla di personaggi, costumi di scena, arredi, luci realistiche, rumori di sottofondo (fuori monta una manifestazione di piazza), oggetti di scena, effetti speciali… tutti racchiusi nel viso e nella voce di quell’unico attore col suo leggìo.

Eccolo, il miracolo di Franceschi. Ancora in scena, cinquant’anni dopo, con uno dei suoi spettacoli teoricamente più ammuffiti: testo politico, scontri ideologici morti e sepolti, pubblico di nicchia. La rassegna, poi, si chiama ‘Segue dibattito’. Ed è subito Seventies: con sul palco un solo attore, che mette in scena – leggendo – la riflessione politica. E al termine del monologo segue un dibattito, barbosissimo, infinito, che di sicuro lambirà la mezzanotte.

Il bello è che è tutto vero. Eppure la resa è stratosferica. E’ il miracolo di Franceschi. Ottant’anni quest’anno e una carriera iniziata a Milano negli anni ’50 al fianco di Dario Fo. Suo il doppio merito di avere scritto, cinquant’anni fa, un testo all’epoca attualissimo ma narrativamente così perfetto da rimanere indenne agli anni e alle epoche mutate. E di aver saputo, in questi giorni, riproporre uno scherma vetusto facendolo brillare come fosse nuovo. Dibattito compreso. Imbarazzante per certi versi, divertente per molti altri. Di sicuro stimolante. E poi epico, per lo scontro tra le generazioni che mette in scena. Quelle più vicine a Franceschi: gente abituata al ritmo lento dell’opinione, delle postille cesellate, e al giusto spazio da dedicare alla riflessione di sé in pubblico. E quelle più recenti. Generazioni smart, veloci, forse distratte, ma di certo puntuali e poco avvezze alle lunghezze del pubblico dibattito.

Così anche il dibattito, in sé, in queste serate che Franceschi ha regalato ai bolognesi (rimangono quattro appuntamenti, imperdibili: giovedì 14, ore 20,30 – I naufragi di Maria; venerdì 15, 20,30 – Filottete.5;  sabato 16, 20,30 –  A corpo morto; domenica 17 gennaio, 16:30 – La Regina dei capelli) resta l’elemento cruciale. Indissolubile protesi del testo. Momento collettivo in cui la platea di spettatori, per voce sola fa da spalla all’attore, che fino a pochi minuti prima da solo aveva rappresentato loro un mondo a mille voci e mille volti. Che magia.

A proposito: tra un intervento e l’altro, senza accorgercene, si è fatta mezzanotte. Da non crederci, quando ci si diverte.