La parità fra i sessi è anche questione di lingua
Fra le tante sciagure che l’appena trascorsa tornata elettorale si porterà dietro ci sarà sicuramente l’insulso dibattito su come dovranno essere chiamate le due donne elette nelle città di Roma e Torino, Virginia Raggi e Chiara Appendino. Prepariamoci al peggio: per dimostrare di essere all’altezza si faranno chiamare sindaca, non rendendosi conto di quanto brutta e cacofonica sia questa parola. Non passa da queste cose la parità per le donne. Giovanni G. Milano
IN REALTÀ la società è cambiata e si dimostra più avanti rispetto alla lingua. Mentre infatti le donne ricoprono sempre più spesso ruoli di primo piano nella società, l’italiano si trova impreparato a descrivere una realtà ormai molto più avanti dell’idioma. La scelta è tra l’utilizzo del sostantivo maschile con la funzione di neutro, l’introduzione dell’articolo femminile di fronte al maschile o la forzatura al femminile di un nome che è stato per centinaia d’anni prerogativa del solo uomo. E non è solo una questione di orecchio e di abitudine. Perché la parità tra i sessi è anche una questione di linguaggio. Prefetta, ministra, assessora o avvocata. Suonano strani e il vocabolario li ignora, ma sono termini corretti da un punto di vista grammaticale. Allora perché non usarli? Perché sindaca o ministra dovrebbero far sorridere, quando non fanno sorridere affatto operaia, lavandaia, commessa e tutti quei mestieri «poco prestigiosi» che gli uomini hanno spartito con le donne fin da quando queste hanno cominciato a lavorare? laura.fasano@ilgiorno.net