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L’Italia di Fellini

MI SI perdoni l’autocitazione ma per un caso ho ritrovato in un cassetto la brutta copia del compito che feci all’esame dell’Ordine per diventare giornalista professionista, un foglio protocollo timbrato 5 aprile 1978. L’autocitazione mi serve per dimostrare come in Italia si parli da decenni degli stessi problemi, senza uscirne. Scriveva il giovane candidato: “La frattura tra le due società si allarga e la distanza accentua l’incomprensione. Il conflitto è diventato contrasto tra ruoli non solo tra idee. La società dei padri e quella dei figli si sono trasformate e adesso si chiamano in due modi diversi, la società dei garantiti e quella degli abbandonati”. Accadeva allora ed è uguale oggi e oggi i campioni del conservatorismo che tiene in piedi la baracca da demolire sono soprattutto la vecchia guardia del Pd e la Cgil, strenui difensori dell’ articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che all’epoca fu una conquista sociale ma che poi con il tempo è diventato un freno che blocca la ripresa e assicura i privilegi ai garantiti che hanno già un lavoro senza preoccuparsi degli abbandonati che invece un lavoro non ce l’hanno, in primis i giovani.

MA GUARDIAMO il calendario per vedere di quale epoca stiamo parlando. Della preistoria, perché lo Statuto dei lavoratori, ovvero l’articolo 18 della legge numero 300 porta la data del 20 maggio 1970, ovvero 44 anni fa. Mezzo secolo. Pannella era un vigoroso rompiscatole che proprio in quell’anno fece passare la legge sul divorzio, legge che seppellì un’Italia codina e ipocrita, incombevano le trame di piazza Fontana, le cui bombe erano esplose sei mesi prima, vennero istituite le regioni, senza che nessuno potesse immaginare che sarebbero diventate allegre assemblee dalle spese pazze e il Presidente della Repubblica era il socialdemocratico Giuseppe Saragat. Che cosa è rimasto di quell’Italia? Per un verso quasi nulla, per l’altro quasi tutto a cominciare dal blocco sociale dei garantiti che si trincerano dietro le cosiddette conquiste dei lavoratori e quelli che il lavoro non ce l’hanno si arrangino, anche se sono i figli degli occupati o dei pensionati. Così siamo arrivati a questo punto e chi si è azzardato a cambiare l’ha pagata cara, bastonato dai raduni alla Cofferati, che vorrebbe ancora sbarrare la strada, o eliminato dalle Brigate Rosse, che hanno ucciso i giuslavoristi. Uccisi per la sola colpa di voler rinnovare un paese dove gli intoccabili hanno sempre trovato protettori non sempre presentabili.
I PROSSIMI giorni saranno decisivi per capire se Renzi ce la farà a dare un calcio all’articolo 18 o se invece dovrà fare valigie da Palazzo Chigi. Vedremo se vincerà lui o quelli che invece pensano si debba cambiare governo una volta l’anno, naturalmente pescando nel solito salottino milanese. Questa è l’Italia che Federico Fellini descrisse in modo magistrale nella “Prova d’orchestra”, film del 1979 che parla di un maestro costretto a piegarsi a musicisti somari e prepotenti. Fellini fece questo film molti decenni prima che la stessa amara esperienza capitasse al più celebre direttore d’orchestra italiano, Riccardo Muti, costretto a fuggire dall’Opera di Roma per non subire più le angherie di musicisti intoccabili e dei loro sindacati sfascisti che dentro quel teatro fanno da padroni. Una vergogna nazionale, anzi una vergogna esemplare.