Blur, riportando tutto a casa
Ormai non speriamo più, da tempo tra l’altro, che i Blur ci rifacciano un’altra “Girls and Boys”. Anche se spesso andiamo, anzi vado, a trovare conforto in quel pezzo lì che è un fermo immagine su quell’epoca. Brit pop l’hanno chiamato. Coniugazione magica di come il pop, inteso come genere, affiancato all’aggettivo british, qui nella sua forma diminutiva, potesse essere qualcosa di stiloso. Sì, mi ricordo le Fred Perry sdoganate da Damon Albarn e soci, come le Gazzelle Adidas ai piedi. Come se tutto potesse ridursi a una moda. Forse lo è stata, ma è andata ben oltre a quel senso di appartenenza estetico che può darti l’indossare la cosiddetta divisa d’ordinanza. Brit pop non era di per sé un’etichetta dispregiativa. Anzi, ogni qualvolta si sente pronunciarla, ci (mi) assale un senso di nostalgia avvolgente. I Blur non potevano fare per tutta la vita quella musica lì. Ecco, se si guarda alla storia recente della musica inglese: forse i Blur assieme ai Radiohead sono l’unico gruppo che ha avuto una sua evoluzione. Talvolta inspiegabile, ma sempre comunque razionale. Damon Albarn l’ha capito in fretta che non avrebbe potuto cantare sempre lo stesso pezzo. E infatti il disco omonimo “Blur” è già il primo atto di discontinuità. Anche se “Song 2″ è ciò che di più popolare i Blur siano riusciti a fare dopo “Girls and Boys”. E’ la canzone di Fifa 98, il videogioco in cui l’Empoli di Martusciello poteva battere l’imbolsito Milan di Capello con la nuova (e scarsa) generazione di olandesi. Divagazioni certo, ma nel frattempo i Blur diventano, ahiloro, la spalla di Tony Blair e del Blairismo. Tanto da farci affermare ora e lo faranno anche loro col disco successivo “Think Tank” (e piace pensare che questo titolo fosse una sprezzante presa in giro della terza via Blairiana dove think tank e gabinetti vari erano diventati i luoghi per discutere su come cambiare il mondo) che il Blurismo è decisamente meglio del Blairismo. Se non altro, ha fatto meno danni. E infatti, il ravveduto Albarn – che dice ora di mangiare soltanto cose vegan – si scaglia contro la guerra in Iraq (2003), di cui fu fautore, assieme a Bush, appunto Blair, e allarga gli orizzonti musicali, fino al Marocco. Ancora una discontinuità segnata sul campo per i Blur, questa volta non nel modello musicale, come accadde col disco omonimo e successivamente con “13”, ma nel modello politico. Da allora Albarn e il suo alter ego Coxon ne hanno combinate di cotte e di crude. Sembravano così divisi e distanti, anche nei loro rispettivi progetti musicali, che una reunion dei Blur era impossibile quasi quanto una degli Smiths. I fatti di questi ultimi mesi dicono altro. A riaccendere la speranza le Olimpiadi di Londra, un paio di nuove canzoni, un mini tour. E poi d’incanto questo nuovo disco: “The magic Whip”. Ecco, nessuno sperava di riascoltare “Girls and Boys”, ma nessuno (forse) sperava nemmeno di ritrovare i Blur così granitici, così equilibrati al loro interno. Con una gestione degli spazi che forse non c’era mai stata nemmeno negli anni d’oro. Albarn non pesta i piedi a Coxon e viceversa. D’amore e d’accordo. Un disco che è sintesi, tutt’altro che dozzinale, delle rispettive esperienze e dei percorsi di entrambi. Un disco, appunto. Che magari non farà ballare come la sopracitata “Girls and Boys” ma che ha tutta la consistenza di un lavoro che non assomiglia affatto a un modo per ricollocarsi sul mercato musicale. Ecco perché di fronte a percorsi di questo genere, in cui non sono mancate ripicche, rivalità, litigate ma anche un mucchio di canzoni da mandare ai posteri, bisogna sempre levarsi il capello. D’altronde i Blur, proprio come i Radiohead, sono riusciti non solo a raccontare lo spirito di questo tempo, ma anche la musica (soprattutto nella sua fruizione e nella sua creazione) in questo momento di piena evoluzione.