Vasco Pratolini
Venticinque anni fa moriva il grandissimo Vasco Pratolini. Inutile sottolineare la forza narrativa, la capacità di fare storia con la letteratura, l’immortalità di opere come “Metello” o “Cronache di poveri amanti”. Il bellissimo scrivere delle classi lavoratrici che prendono coscienza dei loro diritti nell’Italia tra Otto e Novecento o le struggenti note d’amore con le sue paure e le sue speranze. Mi piace ricordarlo con questo bel pezzo di Paolo Petroni dell’Ansa. Lo riporto qui di seguito integralmente.
Non stupisce che, tra tanti recuperi, manchi all’appello in questi anni di disimpegno e crisi ideologica quello di Vasco Pratolini – di cui domani 12 gennaio ricorrono i 25 anni dalla morte – scrittore che dell’impegno e dell’analisi storica aveva fatto il cavallo di battaglia dei suoi romanzi, ma assieme sorprende che in un momento di rivalutazione della narrazione, del racconto, della storia, magari con echi epici, non si siano riproposti i suoi romanzi, da “Metello” a “La costanza della ragione”, da “Cronache di poveri amanti” a “Allegoria e derisione”.
Del resto fu lui, in un’intervista a Ferdinando Camon, a sintetizzare nel 1983 la propria poetica dicendo: «Nel nostro campo (…) non la restaurazione culturale può mettere paura (essa si combatte combattendo il più vasto disegno di restaurazione politica e sociale che la esprime), bensì scoprire, piegandosi sopra la pagina bianca, di fare letteratura: esercizi di calligrafia sulla pelle dell’uomo», aggiungendo che spesso per questo le opere anche le migliori dei suoi coetanei gli apparivano già postume.
E, uscito nel 1955, “Metello”, che divenne anche un fortunato film di Bolognini con Massimo Ranieri e Ottavia Piccolo, è il libro centrale della ricerca di Pratolini. Si tratta dell’educazione sentimentale e alla vita, privata e sociale, del muratore Metello Salani a cavallo del secolo, una storia individuale di lavoro, fatica, amori e tradimenti, e corale verso la presa di coscienza della propria dignità, dei propri diritti, della solidarietà.
«Nei precedenti romanzi permanevano vaste zone di liricità, Metello è invece tutto, o quasi, risolto nella narrazione», scrisse allora Carlo Salinari, aggiungendo che, rispetto alle “Cronache di poveri amanti” o alle “Ragazze di San Frediano”, molto corali, in cui l’ambiente finiva per prevalere sull’individuo, ora i personaggi centrali erano ben messi a fuoco e diventavano perno della vicenda attraverso cui leggere le vicende di tutta una classe sociale e la realtà che la circondava. Tutta l’opera di Pratolini a questo tende e si impegna a fare, rileggere e dare un senso alla storia del nostro paese tra Otto e Novecento, raccontare il cambiare di una società e la presa di coscienza delle persone, interrogarsi di continuo attorno alle ragioni storiche che hanno nel tempo ritardato il progresso dell’umanità secondo una visione socialista, prendendo a bersaglio costante quella borghesia, grande e piccola, che si esprime al massimo negli anni del fascismo. Possono apparire paradossali oggi certe dichiarazioni estreme, polemiche: «Non mi interessa il grado di poesia, o di poeticità, che posso aver raggiunto o mancato, ma l’impegno che me lo ha dettato, i suoi significati», la “Costanza della ragione”, per citare il titolo di uno dei suoi libri più importanti, ma poi alla rilettura dei suoi romanzi, delle sue storie avvincenti e che ci aiutano a capire il nostro passato, si scopre al fondo una tale forza, una carica umana che colpisce e conquista. Pratolini, nato nel 1913 a Firenze da una famiglia poverissima, fu autodidatta e passò per tutti i mestieri più umili, sempre guidato dalla passione per la lettura, che cercava di organizzare con criterio, e pronto a fuggire all’Università per ascoltare le lezioni di letteratura. La svolta arrivò con l’amicizia di Ottone Rosai e la frequentazione di casa sua, dove incontrò e strinse amicizia con personaggi che andavano da Aldo Palazzeschi a Romano Bilenchi. Cominciò allora la passione per la scrittura nel fervido ambiente intellettuale fiorentino, tanto che a fine anni Trenta fondò, col poeta Alfonso Gatto, la rivista “Campo di Marte”. Poco prima della guerra si trasferì a Roma, dove si iscrisse al Pci clandestino e partecipò alla Resistenza, caposettore nella zona Flaminio-Ponte Milvio.
Dopo la Liberazione fece il giornalista e lavorò molto come sceneggiatore (tra l’altro collaborò a “Rocco e i suoi fratelli” di Visconti). Cominciarono a uscire i suoi libri più importanti, tradotti in varie lingue grazie al loro grande successo e capacità di accendere anche forti dibattiti critico-ideologici.
Pratolini morì all’improvviso a Roma il 12 gennaio 1991 a 78 anni e oggi, in questo periodo di crisi profonda, sarebbe davvero necessario rileggerlo e riproporlo.