Umberto Eco, il Dams, gli anni Ottanta e altre cose divertenti che non rifarò mai più nella vita
L’avanguardia vive nel presente quello che sarà il futuro, ma il tutto accade nell’inconsapevolezza. Chi pensa di essere avanti, ne sono convinto, il più delle volte è soltanto un vanaglorioso.
Nel 1980 e dintorni, dopo uno sterile passaggio a Giurisprudenza (giusto il tempo necessario per far capire a casa che non era il caso…), finii all’istituto di discipline di Comunicazione in via Guerrazzi a Bologna. In parole povere al Dams, anche se già si vagheggiava di un indirizzo, di un corso di laurea in Comunicazioni. Anche questa, come il trovar lavoro dopo la laurea, sembrava un’utopia. Di certo agli occhi dei più chi frequentava il Dams in quegli anni era un poco di buono, uno che non avrebbe cavato fuori un ragno dal buco. Avevo poco più di vent’anni, onestamente non è che capissi molto, ma a me quell’istituto non sembrava affatto male. In quel corridoio stretto e lungo dal quale si raggiungevano aule e laboratori, si incontravano i professori prima delle lezioni. Il clima era disteso e anche Umberto Eco era sorridente e ben disposto nei confronti di tutti, nonostante fosse già Umberto Eco.
Ogni giovedì alle 16 (mi pare, non vorrei esagerare…) riempiva l’aula grande in fondo al corridoio. I primi venti minuti erano uno spettacolo pirotecnico, una divertente dissertazione che risvegliava i sensi del più stordito degli studenti. Poi partiva per la tangente e allora seguirlo era un’impresa riservata a pochi. Ma c’era sempre modo di progredire, frequentando i numerosi seminari di approccio alla semiotica. Finii in un piccolo gruppo capitanato da un giovane (che mi pareva grande, ma non doveva avere più di 35 anni) professor Bonfantini che teneva un prezioso seminario sull’analisi dei quotidiani. Era autore, il giovane assistente del professor Eco, di un libro che conservo come una reliquia, intitolato ‘Semiotica ai media’. Analizzava tra l’altro il modo in cui i titoli dei giornali guidano e sviano il lettore. Tra le varie ricerche sul campo quella dedicata al confronto della titolazione all’indomani della morte di Francesco Lorusso (erano passati pochi anni…): l’uso della parola ‘morto’ anziché ‘assassinato’ a seconda del quotidiano mi apparve illuminante e forse lo era davvero… Ma come si diceva, le avanguardie mica sono consapevoli di esserlo, e mi pareva del tutto normale fare deduzioni e abduzioni, ma forse non era ginnastica così comune allora, per non parlare dei nostri giorni.
Gli studenti del Dams si vergognavano quasi di esserlo: negli annunci per affittare casa era comune incontrare l’avvertimento ‘no studenti Dams’. Sarà perché i giornali iniziarono a targare le loro pagine con il logo ‘I delitti del Dams’ facendone quasi una rubrica. In effetti per un’incredibile serie di tragiche coincidenze gli omicidi Alinovi, Fabbri e Polvani, tutti risalenti a quegli anni, pur non essendo in alcun modo collegati tra loro, avevano questa matrice comune. Ma può anche darsi che tutte e tre le vittime frequentassero la cioccolateria Majani… Tutto questo nonostante in via Guerrazzi si andasse a lezione da prof come Fabbri, Calabrese, Celati (<voi studenti siete figli di papà che volete solo portare a casa il voto/scontrino e noi professori siamo commesse della Standa incazzate>, scritto a caratteri cubitali sulla lavagna durante una sua memorabile ed estiva sessione d’esame), Pignotti, Barilli, Nanni, Grandi e l’elenco sarebbe davvero interminabile (e quindi lo lascio incompleto). Un laureato Dams preferiva presentarsi ai colloqui di lavoro come un generico laureato in Lettere e Filosofia. Non si sa mai, meglio evitare complicazioni. Poco importava che in quelle aule gli studenti avessero a disposizione i primi computer Olivetti per programmare e si dibattesse di media, estetica e telematica.
Ricordo che, da poco laureato (1984 se non sbaglio), insieme a un amico (lui si avanti, <questo è il futuro>, diceva e aveva ragione…) aprimmo l’Erretia, che stava per Ricerca telematica applicata. Conservo ancora il biglietto da visita e ogni tanto me lo guardo. Studiavamo e muovevamo i primi passi sull’esempio di quanto stava accadendo in Francia con il Videotel, una prima applicazione che ha preceduto di qualche anno Internet e che in quegli anni la Sip tentò di lanciare anche dalle nostre parti. Sempre al Dams circolava un altro prezioso volumetto (altra reliquia, a ognuno le proprie…) di Simon Nora e Alain Minc intitolato ‘Convivere con il calcolatore’ (il calcolatore alla francese) in cui si parlava di come le reti telematiche avrebbero cambiato il mondo della comunicazione, trasformandola da verticistica a orizzontale e annunciando già all’epoca il rischio con il quale oggi conviviamo: la ridondanza del’informazione e la conseguente difficoltà a riconoscere il vero dal falso. Temi che non sembravano all’avanguardia a noi che li vivevamo nel presente.
Correva il 1984, si studiavano e si sperimentavano tante belle cose, ma ricordo che mio padre stava per cacciarmi quando scoprì che dopo il Dams volevo fare dell’Erretia il mio lavoro… Non gliene voglio, anche se l’idea non era affatto male e anche lui poi se ne rese conto molti anni dopo. Ma eravamo troppo avanti, come si dice oggi, e ricordo che ce ne volle per tranquillizzarlo: fortunatamente giocavo a pallone abbastanza bene e quando la domenica arrivava sugli spalti del Cus Bologna in via del Terrapieno era soddisfatto di vedermi fare cose normali come giocare una partita di pallone. Lo debbo ringraziare per la passione per lo sport (praticato) che mi accompagna ancora oggi, ma oggi voglio ringraziare il professor Eco che mi ha fornito gli strumenti per affrontare il mondo e anche capire come funzionano le cose. Senza presunzione e con la consapevolezza di aver vissuto nel presente di quei giorni quello che sarebbe stato il nostro futuro. E, tutto sommato, non è affatto poco. Di certo quell’istituto in via Guerrazzi era all’avanguardia checché ne dicessero i soliti benpensanti.