Quel libraio sull’Arno che conquistò gli inglesi
Librai si diventa non si nasce, come par di capire dalla vita allegra e fantasiosa di Giuseppe Orioli, romagnolo di Alfonsine, vicino Ravenna, che a 12 anni faceva il garzone di barbiere al paese suo e frequentava certe compagnie, che peggio non potevano essere. Come quella che si trovava all’osteria di suo padre, socialisti mangiapreti che per farsi beffa della religione portavano in processione teste di asini appena macellati e poi le inchiodavano appese alle orecchie ai portoni delle chiese. Poi Orioli, classe 1884, diventò libraio ma non subito, sia chiaro, perché il rito iniziatico prevedeva varie tappe. Come quella di spacciarsi a Londra per professore che insegnava l’italiano, lingua che nemmeno lui aveva ben imparato ad Alfonsine. Ma tant’è, le apparenze contano e l’annuncio di un giovane insegnante italiano che dava lezioni lo fece pubblicare sul “Morning Post”, che era il giornale più snob della capitale, e il risultato fu eccellente perché quel giornale snob era capace di rendere snob (e credibili) anche quelli che vi pubbicavano gli annunci economici.
COSÌ DOPO tutta questa trafila Orioli non solo insegnò a stento l’italiano ma imparò benissimo l’inglese a Cambridge e conobbe grandi personalità della letteratura, della musica, dell’arte, e cominciò a leggere libri in quantità. Il primo, se lo ricordava bene, era stato un romanzo di Paolo De Kock, mai esistito, che raccontava di una prostituta. Ecco, questo va detto, una costante della sua vita fu il sesso e aveva gusti di così ampie vedute che non stava a sottilizzare tra donne e uomini. Ma nel leggere la sua biografia, Le avventure di un libraio (pagg. 286, € 20,00), pubblicato da Castelvecchi quasi ottant’anni dopo la prima edizione, gli va riconosciuta, accanto alla chiarezza che nulla nega, l’eleganza di saper ammettere con garbo e misura. E in che modo fece il libraio Orioli? Come quelli che si incontrano in certi supermercati librari di oggi che hanno la pettorina e chiamarli librai sembra un’esagerazione? No, lui fece il libraio davvero. Un mercante che aveva il gusto di andare a caccia di libri rari, che partecipava alle aste per riempire la sua libreria, che era più un salotto che una bottega e i frequentatori vi sostavano a giornate intralciando quasi sempre il commercio.
FU COSÌ che Orioli, Pino per gli amici, in quel periodo codino divenne il più importante libraio anglofiorentino, che richiamò sull’Arno amanti dell’arte e miliardari che dettero lustro alla città di Dante per il solo fatto di frequentarlo e senza bisogno di ridursi ad affittare i lungarni ai maraja che si sposano. Questa fu la vita di Orioli, ex ragazzo di bottega con la voglia di conoscere il mondo, nonostante il padre gli dicesse di stare a casa «perché tu sbagli, figlio mio, a credere che a Parigi leghino i cani con le salsicce». Invece Orioli salì su un treno che lo portò in Francia e poi su un altro treno e sul traghetto per arrivare a Londra. E poi su un altro treno e un altro ancora per tornare in Italia e per lasciarla di nuovo, per andare a Firenze e per andare a vivere a Bologna, per godere dei profumi di Sorrento, della luce di Amalfi, insomma per godersi la vita, per sfamare l’anima ma anche il corpo. Negli ultimi anni, dopo lo scoppio della guerra, si era rifugiato a Lisbona, dove morì nel 1942 in miseria e abbandonato dagli amici.
La libreria di Orioli che era prima in via de’ Vecchietti e poi sul Lungarno Acciaiuoli si chiamava “Davis & Orioli”, inteso il primo come Irving Davis, libraio antiquario di grande gusto, amante dell’Italia, coltissimo e anche lui disinibito in un’epoca di imperante bacchettoneria. Quella bottega fu il ritrovo di mezzo mondo, di letterati come Bloomsbury, Aldous Huxley, Norman Douglas (legato a Orioli da una stretta amicizia), Somerset Maugham, di musicisti come Rubinstein e di storici dell’arte come Herbert Percy Horne, quello che ha dato il nome al museo. Ma Orioli fu anche editore e la sua prestigiosa ‘‘Lungarno Series’’ pubblicò in inglese “L’amante di Lady Chatterley”, altro scandalo, che David Herbert Lawrence aveva scritto al tiepido sole delle colline fiorentine.
«GLI AFFARI prosperavano – ricorda Orioli – e mi ero specializzato in un genere di libri – libri italiani antichi, per lo più – particolarmente adatto alla clientela straniera e inglese in particolare. Li trovavo soprattutto a Londra perché poco materiale era rimasto in Italia e trovavo una stranezza comprare libri italiani in Inghilterra per venderli agli inglesi in Italia».
Tra quegli inglesi c’era anche Harold Acton, il raffinato cultore dell’arte che coniò per sé e gli altri la colorita definizione di “anglobeceri”.