L’ultima raffica
Maligni: dicono che è freddo e algido. Non è vero. Lui, Massimo D’Alema, si occupa di politica internazionale, fa cose, vede gente. E racconta dei peshmerga curdi che “studiavano Berlinguer” sotto le bombe di Baghdad. Di come lui si commosse. Poi si prepara per Perugia, dove è in corso il conclave della minoranza Pd o sinistra dem o quel che è. Chiaro, mica si occuperà di bazzecole, bensì di politica internazionale. Anche perché le beghe di casa nostra lo interessano poco. Così poco da concedere un’intervista a tutta pagina al Corriere su temi tutti interni al Pd. Premettendo: sono stato in Iran (chissà se si è commosso anche lì) e non so che cosa sia successo in questi giorni. No, non lo sa. Infatti, spera che Massimo Bray, ex ministro della cultura, corra per conquistare il Campidoglio. Sostiene che il Pd “è finito in mano a un gruppetto di persone arroganti e autoreferenziali”.
Boccia per sempre Matteo Orfini (ex dalemiano ora renziano, presidente dell’assemblea Pd che comunque gli risponde di volergli molto bene, il che rasserena un po’ tutti). È pura ‘stupidità’ l’aver respinto il ricorso di Antonio Bassolino a Napoli. Demolisce l’azione di Renzi. Definisce Denis Verdini “intelligente e molto meno estremista di alcuni suoi partner del Pd”. Prevede che, prima del partito della Nazione, arriverà il populismo di Grillo. È sicuro che il premier assomigli decisamente più a Berlusconi che all’Ulivo. E le primarie? Hanno perso “ogni credibilità”.
Sottolinea che il Pds aveva 670mila iscritti mentre il Pd ne ha poco più di 300mila. Omettendo – piccolezze – che a chiudere il Pds e dar vita ai Ds fu proprio lui nel 1998 a Firenze, stessa città in cui, nel 2007, fondò il Pd. Evoca e non evoca – bizantino quanto mai – la scissione, salvo bacchettare la famosa minoranza Pd: guardo a loro “con simpatia, ma non mi pare che, purtroppo, riesca a incidere sulle decisioni fondamentali”. Ecco, questo è uno snodo fondamentale nell’analisi dalemiana: lo spettro della scissione c’è, ma essa dovrebbe avvenire non si sa bene come e quando, visto il giudizio poco lusinghiero nei confronti della minoranza. Pur non rappresentando da tempo alcuna area (i fedelissimi sono rimasti pochi e, ieri, non avevano alcuna intenzione di parlare), le parole dell’ex lìder maximo scatenano una discreta bufera. A replicare, più i bersaniani che i renziani, segno che, anche da quelle parti, l’intervista è poco apprezzata. Ma lui vola alto. Come quando, alla Camera, evitava i giornalisti, ma non mancava di esibire Le Monde, segno di un solido interesse per la politica internazionale. O come quando aveva vestito i panni di raffinato enologo. “Sa leggerissimamente di tappo” oppure “ha un gusto rotondo” le frasi preferite. E poi, ancora, le cene coi preziosi nettari da lui prodotti, tipo il celebre ‘Sfide’ (niente a che fare con la trasmissione tv diretta dalla moglie di Fabrizio Rondolino, suo braccio destro a Palazzo Chigi) di “colore rosso intenso con notevoli riflessi violacei”.
E CHISSÀ che questa sparata non sia una sfida vera. Per carità, lui si schermisce, “offre un contributo culturale”. E, a tal uopo, annuncia che la sua rivista Italianieuropei sta preparando un numero sui 70 anni della Costituzione. Roba forte. La politica può, insomma, aspettare. Del resto, è così da anni. Anche perché D’Alema non lo sopporta proprio quel Renzi. Specie dopo aver perso la gara per ministro degli Esteri della Ue (vinta da Federica Mogherini). Chissà, forse si riprenderebbe anche quella maglia di Francesco Totti che regalò al premier. Secoli orsono. Quando i due si scambiavano sms affettuosi e pieni di attestati di reciproca stima.