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Manolo è tornato

Diciamolo con franchezza: pochi o tanti che siano, gli ottant’anni dallo scoppio della guerra civile spagnola non sono stati celebrati adeguatamente. Per lo meno in ambito europeo. Era il 17 luglio del 1936 quando Francisco Franco dette il via al suo “alzamiento” contro il legittimo governo repubblicano spagnolo che aveva vinto le elezioni nel febbraio 1936. Per tre anni, cioè sino all’aprile 1939, le truppe del “generalissimo” misero a ferro e fuoco la Spagna democratica e vinsero la loro guerra contro i “rossi”. Decisivo fu l’aiuto dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani, di Hitler e Mussolini. Dalla parte della democrazia si schierarono invece l’Unione sovietica (un ossimoro, è vero) e il Messico, mentre gli Stati europei e, in parte, gli Usa di Roosevelt ebbero tentennamenti interessati e meschine paure. Si pensava di poter sacrificare la Spagna democratica al fine di tener buono il mostro nazifascista, un’operazione politicista e perciò miope. Infatti, la guerra civile spagnola fu la prova generale del Secondo conflitto mondiale, della sfida tra ragione e follìa. Peraltro, e qui sta il nocciolo interpretativo di quel terribile triennio, la guerra civile fu anche l’ultimo vero conflitto ideale e ideologico tra chi credeva nella libertà e chi nella reazione. Non è un caso, insomma, se migliaia e migliaia di volontari presero le armi lasciando affetti, famiglie, lavoro, studio e la normale vita di tutti i giorni per combattere. Certo, da parte nazifascista i “volontari” furono tutti lautamente ricompensati, mentre da parte repubblicana il cuore guidò le azioni dei soldati come ben dimostrato, tanto per fare un esempio facile facile, da “Terrà e libertà”, film cult del regista inglese Ken Loach.

A colmare, in parte, la parca vena di saggisti e romanzieri ci pensa la palermitana Sellerio che, nella collana La memoria fondata da Leonardo Sciascia, ci ripropone un’opera, un vero e proprio manuale di letteratura politica, che suscitò vivaci polemiche quando uscì nel 1992 (quindi un secolo fa): “Io, Franco”, autobiografia romanzata del Caudillo scritta dall’immortale Manuel Vàzquez Montalbàn, autore noto per i romanzi “gialli” con protagonista Pepe Carvalho. In essa, si immagina che un malinconico e intelligentissimo scrittore – segnato da numerose cicatrici politiche e sentimentali, profondamente antifascista – intervisti Franco, facendogli stilare una sorta di rendiconto finale della sua vita (il dittatore muore nel 1975). Una vita improntata a viscerale odio verso “rossi” e massoni e da una visione utilitaristica e meschina della vita nazionale. In quel 1992 molti rimproverarono a Montalbàn di aver dipinto un Franco sin troppo intelligente. Accusa che Manolo (così gli amici chiamavano lo scrittore catalano) respinse con la consueta ironia: “In un certo senso è vero – disse a Stefano Malatesta – perché è lui che parla di sé stesso e cerca naturalmente di presentarsi bene. Le autobiografie sono sempre un falso”. Ecco, qui sta la forza delle pagine (tantissime: 998 pur nel formato tascabile selleriano) di Montalbàn: essere riuscito a scrivere un romanzo con solidissime basi storiche. A tal punto che la lettura, oltre che piacevole come solo Manolo sapeva rendere, è, diciamo così, pedagogica. Si impara divertendosi.

E’ evidente che Franco, qualunque sia l’orientamento politico del lettore, è un’ossessione ancor oggi ben presente nella società spagnola, tutt’altro che pacificata come certa pubblicistica, anche onestamente, vuol far credere. Montalbàn dichiarò il fine ultimo della sua opera: “Ho voluto ricostruire la memoria, cancellata dal franchismo, di tutti quelli che avevano perso la guerra”. Ed ecco quindi che Franco racconta allo scrittore malinconico e antifranchista la sua gioventù, un padre militare eppure capace di infrangere le regole imposte da una società bigotta e arretrata, di una madre venerata, di una religione (ovviamente cattolica) vissuta come dogma e non come ricerca di un qualcosa che dia senso alla vita.

Il Franco bambino che resta traumatizzato per la perdita del padre (simpatizzante massone e che fugge con un’altra donna); il Franco che, probabilmente, identifica la figura della madre in quella della Spagna; il Franco mediocre e di scarsissima cultura che, preso il potere, mostra una ferocia inaudita verso chiunque la pensi diversamente (addirittura i monarchici devono stare attenti…) e che mostra un odio infinito verso i massoni, colpevoli, a suo dire, di essere stati i veri colpevoli della fine dell’impero spagnolo quando le truppe reali furono malamente sconfitte dagli statunitensi a Cuba nel 1898. Quello di Franco, almeno come scrive Manolo nel suo romanzo, è un fascismo particolare (non a caso, aggiungiamo, il boia cileno Augusto Pinochet ne fece un’icona durante la dittatura del 1973-1990), capace di imitare lo stile roboante di Mussolini durante la guerra, salvo evitare di impegnare (a parte un corpo di spedizione in Russia) il suo Paese nella Seconda guerra mondiale e in seguito divenire mansueto e obbediente servitore degli Usa nella guerra fredda. Il franchismo, insomma, come cattiva coscienza di un certo Occidente ossessionato dalla paura del socialismo e del comunismo, aiutato, in quella guerra santa che durerà sino alla caduta del Muro, dalla destra tradizionale, ovviamente dalla Chiesa e dalla grande finanza internazionale. Mai la sua mano trema quando si tratta di firmare l’ordine di uccidere i rivali politici. Mai la sua coscienza ha un sussulto: si pensi che solamente tra il 1939 (anno della fine della guerra civile) e il 1944 furono più di 200mila le esecuzioni.

In ultimo (ma non per ultimo) una raccomandazione. “Io, Franco” non è un libro “facile”. Bensì un volume che fa pensare e che rende tutti più attenti al “sonno della ragione”. Che c’è stato e che, chissà, oggi mostra nuovamente tutte le sue mostruose sembianze. Perché è pronto a ritornare. E la letteratura, la letteratura politica come ci insegnava Sciascia, è forse il miglior antidoto per respingere questo tentativo. O, quantomeno, per limitarlo.