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Lasciate in pace i lettori della Ferrante (e lei stia al gioco)

elenaferranteComplicata, ma non inedita, la vicenda di Elena Ferrante. Presente sul mercato dal 1992 con “L’amore molesto”, la critica l’ha subito osannata e il mercato l’ha pressoché ignorata, perlomeno fino al 2011, quando è uscito “L’amica geniale“, il primo di una lunga e fortunata serie. A quel punto sono successe due cose: i media italiani hanno continuato più o meno a ignorarla; il pubblico, invece, ha preso a comprare i suoi libri.  Il salto in avanti è arrivato con l’interesse del mondo: sulla scia delle tante, fortunatissime traduzioni in giro per i Paesi, la popolarità della Ferrante è diventata global (così come la voglia di scoprire la sua vera identità) senza che in Italia ce ne accorgessimo. Perlomeno finché il Times nel 2016 non l’ha inserita tra i 100 personaggi più importanti dell’anno e il tedesco Der Spiegel non le ha dedicato, questa estate, una lunga intervista di copertina.

Il riflesso, non voluto di sicuro dall’autrice, e in qualche modo alimentato dal mercato, è che a quel punto in tutto il Pianeta la scoperta della sua vera identità ha preso a far parte a pieno titolo della narrazione dei suoi libri. Sono iniziate inchieste, contro-inchieste, reportage dall’Italia e l’esito lo conosciamo: un cartello di testate internazionali – la Domenica del Sole 24 Ore, il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, il sito di informazione francese Mediapart e quello della New York Review of Books –  ha ingaggiato il bravo Claudio Gatti per un’inchiesta, ancora non smentita, che dopo anni di illazioni ha unito i puntini e sbattuto in prima pagina nome vero, vita privata e reddito annuo di Elena Ferrante. Anita Raja, moglie dello scrittore Domenico Starnone, traduttrice di romanzi dal tedesco. Per capirlo Gatti ha indagato come si fa per le cose serie: lavorando sui compensi della traduttrice, sugli acquisti immobiliari fatti e su un mucchio di altre cose, arrivando a capire che i soldi della Raja sono del tutto incompatibili con un lavoro, pure fortunato, da traduttrice per la E/O e con le fortune del marito.

A questo punto apriti cielo. Come sempre più spesso, in questi tempi di social, l’opinione pubblica si è divisa in due eserciti sanguinari. Quello del “cosa devi andare a scavare nella vita altrui?” e quello del “abbiamo diritto di sapere”. Molto più combattivo il primo. Con Gatti, accusato di aver utilizzato per una scrittrice gli stessi strumenti d’indagine che i magistrati usano per i mafiosi e lo stesso spiegamento di forze e budget che i giornali destinano alla ricerca del 730 di Donald Trump. Dietro alle due fazioni torme di lettori e commentatori più e meno noti, a urlare che, in fondo, era bello quando non sapevano chi fosse Elena Ferrante, e potevano continuare a immaginare che fosse Zagrebelsky, Wu Ming #1, Susanna Tamaro o la Boldrini. Nel frattempo la casa editrice, la E/O che, pur non smentendo, inviperita ha invocato il diritto alla privacy.

Ma privacy di cosa? Questo è il punto. Dei 730 della Raja, quello sì. Ma di una scrittrice che vende milioni di libri in tutto il mondo e il cui personaggio ha suscitato le naturali attenzioni dei giornali internazionali, come dai tempi di Umberto Eco con il Nome della Rosa a un autore italiano non accadeva? Di una persona che ha scelto uno pseudonimo ma poi ha permesso che si sapesse che fosse tale, concedendo interviste abbottonate e stuzzicando anche involontariamente la curiosità dei lettori? Nulla di questo è una colpa, sia chiaro. Così come è chiaro che Elena Ferrante possa lasciar passare in silenzio questo momento e continuare a tenere su la sua maschera, cui ha diritto. Magari alimentando il dubbio finché può. E’ un consiglio. Perché la storia delle identità celate e disvelate è avvincente proprio quando un punto interrogativo rimane sempre. Editore e autrice accettino accettino però al contempo un interesse sì, morboso, ma figlio di un interesse pubblico che, una volta tanto, dopo anni, fa appassionare le persone a un caso letterario piuttosto che a un talent, al lato b di un calciatore o una velina, o ai divorzi e i matrimoni delle star di Hollywood.

Sull’opportunità, dunque. Lasciamo in pace la Ferrante, come molti si affannano a dire, ma lasciamo in pace anche Gatti, i suoi mandanti e i loro lettori. Perché è figlia delle migliori storie della letteratura alta, da secoli, tanto la voglia di celare la propria identità con uno pseudonimo, quanto la curiosità del lettore di smascherarla. L’elenco dei precedenti è fin troppo lungo, e in questi giorni sui giornali se ne trova ampio reportage. Resta da dire, forse, che mai nessuno ha meno amato un autore smascherato: ogni illazione o dettaglio, semmai, vero o falso che fosse, ha sempre accresciuto la aura. E resta un dato: la letteratura racconta storie di vita, e la vita per sua natura è sempre vera, anche quando è inventata. Le storie poi, si sa, puoi indirizzarle finché vuoi. Tanto alla fine vanno dove pare a loro.