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Ore 7.45: fine di una giornata

Passi veloci lungo le scale di casa. Ai piedi scarpe da ginnastica ormai logore, infilate  rapidamente, con gli occhi ancora assonnati di chi forse avrebbe voluto dormire di più. Restare rannicchiata nel letto a godersi il silenzio di quella stanza, che a sedici anni segna il confine inviolabile tra il proprio spazio e quello comune, condiviso con affettuosa sopportazione. Un filo di trucco, giusto per appagare una femminilità ancora acerba e la naturale vanità della donna che sarebbe potuta diventare. I saluti alla fermata di bus, le solite facce, una quotidianità rassicurante fatta di gesti ripetuti all’infinito.

 

Nel preludio alla tragica morte di Melissa c’è talmente tanta normalità da renderne quasi inconcepibile l’epilogo. E così, mentre prendono corpo e sfumano ipotesi e piste, l’unico dato certo (e che in questo momento realmente conti) è la tragedia di una vita spezzata troppo presto e il dolore di una famiglia che aveva semplicemente mandato la propria unica figlia tra i banchi di scuola.

 

Morire a sedici anni è sempre inaccettabile, innaturale: troppi respiri non fatti, troppa vita non vissuta. Ma non basta. Quei semplici fogli di quaderno sparsi per terra, di fronte al muretto annerito dall’esplosione, testimoniano con chiarezza che la fine di Melissa si è consumata nel fare qualcosa di ordinario, cioè andando a scuola: un’azione talmente quotidiana da riguardare necessariamente tutti. Melissa non aveva niente di diverso dai ragazzi che siamo e che siamo stati. Melissa era semplicemente tutti noi.