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I tavoli del lavoro

Il lavoro lo creano le imprese. Quando nascono e quando crescono. Domanda: come si fa a stimolare la crescita? Come si fa soprattutto in tempi di risorse scarse o nulle? I 150 tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo sono chiamati a dare risposte alla drammatica situazione di oltre 180mila persone che hanno perso il posto o rischiano di perderlo. Dall’Alcoa al Carbosulcis, da Fincantieri alla Lucchini, dalla A.Merloni alla Fiat a Termini Imerese, dal tessile (Omsa e Miroglio) alle compagnie aeree. Sono casi di crisi anche molto diversi tra loro — per genesi, investimenti azzeccati e sbagliati, errori e sfortune  — che hanno come unico denominatore comune la sorte delle persone che vi lavorano e la crisi che attanaglia il mondo occidentale non solo l’Italia. E alle aziende in crisi che hanno trovato accesso al ministero si devono aggiungere le altre migliaia in difficoltà o già chiuse.
È la spada di Damocle più affilata sulla testa del governo: quando non sai come arrivare a fine mese e temi di non avere futuro non sei disposto ad ascoltare troppe chiacchiere. Aldilà dei singoli casi – che tutti si augurano finire al meglio – le domande di fondo rimangono ineluttabilmente le prime due: come si fa a stimolare la crescita? Come si fa in tempi di scarse o nulle risorse? Il ministro Fornero parla di riduzione del cuneo fiscale per chi mostra di avere buoni rapporti con il personale. Passera ha incardinato alcune misure. La Confindustria chiede crediti di imposta per un miliardo di euro per sostenere l’innovazione. Il rigore – dicono in coro sindacati, imprenditori, economisti e politici  – sta uccidendo il malato. Tutto si tiene o sembra tenersi, salvo che le aziende chiudono e i posti di lavoro vanno in fumo.

 

 Senza che si sciolga il nodo di fondo: come, con che soldi, l’Italia può sostenere imprese e lavoro? L’unica strettissima e dolorosa via è ancora quella che ha dato il via all’esperienza di Monti a Palazzo Chigi. E’ retta da due pilastri: la riduzione del debito pubblico italiano, un nuovo corso per l’Europa. Con questi livelli di spread le aziende italiane per finanziarsi – nonostante il costo del lavoro sia uguale per tutti nell’eurozona – pagano 4-6 volte di più rispetto ai loro concorrenti per finanziarsi sul mercato (e paesi concorrenti come la Germania ci guadagnano). Questo fattore si somma e moltiplica i mali atavici del sistema Italia: per guarire questi ultimi non possono bastare dieci mesi di governo tecnico, anche con la più potente bacchetta magica. Per alleviare i dolori dello spread qulcosa, invece, si sta facendo. Se la febbre non passa pensare a qualunque soluzione di medio lungo periodo rischia di apparire ingenuo, ma c’è un’altra amara verità che va detta: se il mondo non riparte l’Italia non cresce. La politica, il governo, hanno il dovere di far trovare il paese pronto semmai il trenino della ripresa dovesse ripassare da queste parti.