diabolikCaro Diabolik, quanta nostalgia per quegli antichi palazzi tra le colline di Ghenf o Clerville, per quelle ricche contesse da svaligiare nelle loro ville in riva alle solitarie plaie di Wilburg o del Beglait. Nobili dimore nelle quali tu o Eva, sostituiti al maggiordomo o alla cameriera, nottetempo rubavate i gioielli addormentando tutti e facendovi rivelare la combinazione col Penthotal. E quanta emozione nel ricordarti all’opera con delle complicatissime beghe familiari tra ricchi nullafacenti, tipo l’anziano barone che muore e tu, travestito dal cognato o dal fratello che nessuno più conosce, ritornato a Clerville per l’apertura del testamento, scopri che in realtà il tranquillo quadretto familiare è un covo di vipere, che uno beve, l’altro spaccia droga e il vecchio rispettabile era inserito nel traffico internazionale di armi. “Che colpo, Eva – dicevi in quei casi parlando al quadrante del tuo orologio – in cantina c’è un caveau con tutti i proventi, e io stanotte cercherò di entrarci”.

Chi conosce il mondo del Re del terrore, che le geniali sorelle Angela e Luciana Giussani crearono negli anni Sessanta, alla ricerca di un fumetto tascabile e popolare che operai e segretarie potessero portarsi in metropolitana, per vagheggiare di soldi e nobiltà prima di arrivare a lavoro, in realtà ama questo: vite altrui, intrighi, fughe improvvise dalla polizia e il grande amore tra Diabolik ed Eva Kant,  messo alla prova albo dopo albo dai rischi della loro condotta criminale. E ama il commissario Ginko, il suo alter-ego che, per nulla subordinato o scontato, che molte volte ha incastrato Diabolik, ha incarcerato Eva, portato al patibolo lui e in cella lei, organizzato trappole e teso tranelli capaci di far credere anche a lettore più avveduto che questa volta, stai a vedere, è davvero essere finita.

D’accordo: Diabolik, nel tempo, non poteva non cambiare. Rispetto agli anni Sessanta, quando era spietato e aveva il coltello facile, con l’avvento di Eva nella sua vita è diventato più giusto e riflessivo. Sui sui aghi il sonnifero si è sostituito al veleno, e rispetto ai veri cattivi, il suo è un interesse puramente materiale: soldi da spendere in nuovi trucchi e diavolerie, gioielli da collezionare, vendette da perpetrare a chi qualche albo prima aveva tentato di incastrarlo. Fin qui è tutto regolare.

Così come regolare è rendere il criminale al passo coi tempi. Negli anni l’uomo, alle doti da chimico che lo hanno portato a inventare quella particolare gomma del tutto simile alla pelle umana con cui realizza le sue maschere, ha aggiunto quelle da meccanico e ingegnere: inventore di marchingegni sempre più sofisticati, per ribaltare le auto della polizia durante gli inseguimenti, di sottomarini tascabili con cui fuggire per mare, di piccoli oggettini volanti capaci di svitare, aprire, scavare. Bello, bellissimo. Perlomeno finché il troppo ha stroppiato.

Prendiamo un albo come tanti: ‘Il bracciale perduto’, edizioni Astorina, collana regolare: anno LIV numero 4 (aprile 2015). L’antefatto è che muore un ricco collezionista di gioielli e uno di questi, sebbene di non particolare valore, potrebbe interessare Diabolik. Eppure l’erede, ed è un grande classico, vorrebbe esporre quei gioielli al museo di Clerville. Sarà Ginko a occuparsi del sistema di sicurezza mentre Diabolik, che ormai non appare più nelle prime tavole come una volta, a un certo punto cercherà di rubarlo. Per farlo attuerà dei piani diabolici e ovviamente ci riuscirà, e alla fine dell’albo ecco un’altra grande tradizione del fumetto classico: ripercorrerà i particolari dell’impresa con Eva, per renderne edotto anche il lettore: il cosiddetto spiegone.

Non è questo che disturba, anzi: insieme ad altre piccole ingenuità e consuetudini fa parte di quelle cose che rendono il fumetto Astorina riconoscibile e ce lo fanno amare. Ci siamo abituati: Eva non nomina mai Diabolik, ma dice semplicemente ‘lui’, quando sono inseguiti dalla polizia quasi sempre capitano in strade dove hanno disseminato trucchi e stratagemmi, e poi entrambi vengono a conoscenza di oggetti da rubare dalla Gazzetta di Clerville, che sembra fatta apposta per promuovere le ricchezze altrui a uso e consumo dei due criminali. Non fosse così non sarebbero loro.

Eppure qualcosa è cambiato. I due sono più pacati, si sono imbolsiti. Hanno fatto uso della tecnologia talmente tanto che, ormai, non corrono quasi più. Coordinano da casa. Diabolik, oltre a fare maschere e allestire marchingegni elettrici, maneggia pennette usb con cui modifica i dati degli impianti di sicurezza, ragiona da informatico, realizza robot sempre più piccoli, precisi e sofisticati. Tutti per un solo colpo. Quasi controproducente! Non che non dovesse informatizzars, ovvio: (forse) sarebbe stato ridicolo vederlo ancora lì a usare cabine telefoniche, cavi, corde e argani e prendere informazioni nei bar della mala.

Ma una volta, Diabolik, falliva. Qualcosa si inceppava, qualcuno lo acciuffava. Prendeva per giorni il posto di qualcun altro e sbagliava qualcosa, veniva scoperto, si tradiva: mica facile prendere il posto di un estraneo e avere a che fare con sua madre, suo fratello, la sua compagna, senza conoscerli. Veniva a contatto con cose, abitudini e anime nere di cui non era a conoscenza, oppure banalmente lo beccavano. Era costretto a uccidere o a cambiare programma, a rischiare la vita, a nascondersi. Perdeva il contatto con Eva, che per aiutarlo doveva vagare alla cieca per le strade di Clerville. Di tanto in tanto, Diabolik, ha sentito la lama della ghigliottina: da quanto non succede? E’ lui che un po’ ci manca. Il criminale che fa piani macchinosi, ma non è mai in grado di prevedere davvero tutto, perché l’informatica, ancora oggi, non può davvero tutto. Maledizione, Re del terrore! Possibile che le vecchie ereditiere siano tutte morte? Sicuro non c’è ancora un vecchio castello pieno di passaggi segreti dai quali intrufolarsi nella vita e nelle ricchezze altrui? Allora va’, cosa aspetti? E ogni tanto tieni a casa il portatile e fai volare le lame dei tuoi pugnali, che fanno ‘swiiish’ così come ‘screeeeek’ fanno i freni della Jaguar. Altrimenti che cosa ti paghiamo a fare?