alfio-antico-anticoNon fosse di Alfio Antico, di questo disco (‘Antico’, Origine/Believe Digital, 2016) forse non staremmo a parlarne. Un disco difficile e maestoso, complicato da approcciare, enciclopedia artistica di un pastore siciliano che da decenni costruisce in prima persona i suoi tamburi a cornice, fatti di pelle di pecora conciata e listelle di legno grezzo.

Nella storia della musica italiana, Alfio Antico è forse più noto agli addetti ai lavori: pastore per davvero, perlomeno fino ai diciotto anni, poi maestro indiscusso di percussione, uomo tradizionale e artista cosmopolita. Ha dato ritmo negli anni ai portavoce più esemplari della musica popolare. Popolare, non pop. C’è un tamburo di Antico alle spalle di quegli autori italiani che, per una volta stanchi di ammiccare Oltreoceano, hanno guardato alle nostre radici sonore: Eugenio Bennato, Fabrizio De Andrè, Lucio Dalla, Carmen Consoli, Peppe Barra, Edoardo Bennato.

Suo pure il tamburo furioso del ‘Ballo di San Vito’ di Vinicio Capossela, che arrivò lunghissimo sulla strada della musica popolare (tutta la fatica del riportarla a galla era stata già fatta) ma ne divenne il manifesto indiscusso. Nel mondo di Alfio, però, se una gamba è il tamburo, l’altra è il teatro. Perché quel pastore verace e mai pentito, una volta lasciata la sua grotta, oltre a suonare nei dischi dei giganti ha calcato i palchi dei migliori teatro al fianco di grandi interpreti: Giorgio Albertazzi, Ottavia Piccolo,  Renato De Carmine.

La vita corre veloce anche per uno dal sangue lento, abituato al tempo perso, anzi, ritrovato. Ma se è il caso di tirare le somme, dopo cinquant’anni passati a battere le mani come un forsennato, di sicuro non si può non ritornare idealmente nelle grotte di Lentini, accompagnato dagli amici Colapesce e Mario Conte. E’ lì che Alfio è nato, lì ha pasciuto le sue pecore per due lire e lì, nelle lunghe ore di ozio ‘Ntra li muntagni’ (il brano di apertura), ha riparato la sua testa col tamburo e ha scandagliato all’infinito le sfumature sonore di quelle pelli. Inventando storie e interpretandole sul suo palco di pietra, davanti a un pubblico di pecore, falchetti, ghiri, vermetti e altri animali. Storie semplici, banali, pregne di saggezza popolare, di muschio, dell’odore acre di pecore e del formaggio, del rimbombo epico che la grotta regala a ogni suono, ogni voce.

Ecco, questo disco è nato in una grotta. Ci ha messo mezzo secolo a uscire, gocciolando ogni nota, provando tutti i movimenti del ballo, levigando le pelli e il loro vibrare. Quel suono era lì, e Antico lo ha soltanto estratto. Imparando a riempire tutti gli spazi solo con il soffio della sua voce e le sfumature del suo tamburo. Capace di rimbombi, di carezze, di cascate di cembali, di sferzate adrenaliniche e cupi suoni saturi.

Ascoltare è un piacere, ma va gustato lento. Al giusto volume, possibilmente al buio, votati ad assorbire. L’incipit di ‘Storii di pisci’, per dire, è un master di livello per chiunque si vanti di voler suonare le percussioni. E ‘Anima’ dimostra, senza ombra di dubbio alcuno, che musica e teatro sono presenti già in natura. Impigliate nei versi degli animali, incastrate tra le rocce, dove il vento fa e disfa storie e suoni ancestrali.

Il resto è folklore umano: giù in paese, il pastore Alfio è sceso per vendere animali, pelli e formaggio al mercato, e in quei posti ha raccolto il resto della sua arte. La fantasia infinta della cultura popolare (‘Lu vermi’); la creatività dei cantori, con le loro saghe inventate sul momento da un canovaccio sempre uguale; la delicata bellezza di certe antiche serenate (‘La rosa’); l’irresistibile ironia delle discussioni di strada, roba da perditempo, parole al vento, aria ai denti, canzonatura, saggezza da due lire, condita ovviamente di tamburo: “Ma guarda guarda” è un brano che da solo vale l’universo meridionale, di cui ‘Indovinelli’ è solo una versione più pettinata.

Il finale è di nuovo nella grotta. ‘Diceva me matri’ che Alfio, adolescente, anche oggi è scappato per non andare a scuola. Tutti lo cercano, ma dove sarà finito lo sa soltanto il vento. E il bello è che lo sapeva davvero: avessero teso l’orecchio, tutti, avrebbe sentito il suono del suo tamburo.

Si sente ancora anche da qui. Questo disco è un universo. Gli appassionati, sentitamente ringraziano.