voltarelli-sagataVenticinque anni di carriera, da ‘Pergamo’ a ‘Il Monumento’ versione remix. Quello andato in scena giovedì 27 gennaio 2016 sul palco del teatro Ferdinando Bibiena (un gioiellino in miniatura, a Sant’Agata Bolognese), non era un concerto di Peppe Voltarelli.

Piuttosto una disamina musicale su un concetto, quello sì, non ancora sviscerato a sufficienza, dell’ispirazione artistica. Delle sue radici culturali, del contesto che le cambia, dei compagni di viaggio che l’artista incontra, del freddo delle camere d’albergo e del caldo avvolgente di certe città sconosciute.

Al centro, come si confà, c’è la storia di un uomo. Una matricola universitaria: Giuseppe Voltarelli, per tutti Peppe, studente calabrese fuorisede nella Bologna del post-’77. Anni della Pantera, del cambio generazionale e del cambio di secolo: un passaggio epocale dal punk-rock all’etno-folk, dalle cassette ai download, dall’inglese ai dialetti, senza passare dall’italiano. Dalle aule del Dams alla vita vera, infine, al cui sole duro la neve dei concetti si scioglie per far trasparire – ma solo quando c’è – l’arte vera.

Invitato a celebrare quei suoi venticinque anni di strada, Voltarelli sul palco apre uno spiraglio sul vaso di Pandora dei ricordi. Torna per un attimo soltanto a quel Parto delle Nuvole Pesanti che – spiega l’artista – “più che un gruppo musicale era un gruppo di gente: dentro c’era chi sapeva suonare e chi non aveva mai toccato uno strumento, chi portava il vino e chi faceva i video, chi studiava per gli esami e chi semplicemente era lì a festeggiare”.

Il contesto è noto: studenti, in larga parte meridionali, in una città – Bologna – che aperta e cosmopolita lo è sempre stata. Per natura: da millenni al centro di strade, ferrovie, snodi, regioni e territori differenti. E per scelta culturale: l’Alma Mater Studiorum, nata nel 1088, tra i suoi fuorisede ha annoverato il tedesco Mozart, l’olandese Erasmo da Rotterdam, il polacco Copernico, ma anche il toscano Carducci, il romagnolo Pascoli, il marchigiano Andrea Pazienza…).

“Dovevamo raccontare quel mondo”, avverte Voltarelli. E poiché per un fuorisede il primo problema è la casa, ecco che dal cilindro pescaEquo canone. Maestosa preistoria. Un po’ perché l’equo canone non esiste più, un po’ perché era il 1994. La band nasceva in quel momento, e per primo Voltarelli da quei palchi improvvisati tirava a lucido un dialetto, il calabrese, così ruvido e spigoloso che mai nessuno si sarebbe sognato di renderlo musicale. Accoppiandolo per giunta a strumenti e sonorità inesistenti per i più, al di là del folklore. Preistoria, davvero: ancora lontana l’onda dell’etnico che, da lì in poi, e per molto tempo (‘Il ballo di San Vito’ di Capossela è di due anni dopo, e il Salento, per i più, era una reminiscenza geografica) sarebbe diventata la nuova scena popolare italiana.

Quant’è cambiato, Voltarelli, nel frattempo. Artista puro, procedendo per sottrazione è riuscito negli anni a estrarre la sua arte dalla sola gola e da un solo strumento, sia esso fisarmonica, pianoforte o molto più spesso chitarra. E poiché a Sant’Agata è in vena di ricordi, racconta al pubblico che, anzi, all’indomani della sua rivoluzione solista (Distratto ma però‘, 2008), un po’ per contingenza e un po’ per incoscienza, andò a sfidare il Premio Tenco, teatro Ariston, solo con la chitarra e poi, da metà brano in poi, neppure più con quella.

Scommessa vinta, ma questa è un’altra storia. Una delle tante che Voltarelli al Bibiena si è deciso a raccontare. Accompagnato da due egregi compagni d’avventure ormai consueti: Italo Andriani al basso e Paolo Baglioni alla batteria. Spaziando tra racconti e brani di una carriera solista che in otto anni ci ha regalato tre dischi (‘Lamentarsi come ipotesi’, l’ultimo disco, è del 2014) e un repertorio già molto vasto di canzoni. Anni in cui Voltarelli, lasciata la numerosa band e rimasto compagno della sua nuda chitarra, ha frequentato soprattutto il mondo: molto Sudamerica, altrettanto Canada, poi Usa, Australia, centro Europa (Repubblica Ceca, Germania) e Francia, dove, lo ha ricordato sul palco, con la consueta ironia, “con ‘Scarpe rosse impolverate’ ho avuto un successo pazzesco… solo per un mese. Ma pazzesco”.

Ed è un viaggio il resto dello spettacolo. Tra ilari aneddoti di gioventù (il lavoro alle Poste, il servizio civile in una casa protetta, gli esami creativi al Dams, le occupazioni universitarie) e strampalati viaggi da star, alla ricerca del mondo dove quasi sempre, immancabili, spuntano gli emigrati italiani. Esagerati, folkloristici, dolciamari: uno spaccato di vita altrui che l’artista, come una spugna, assorbe per poi restituire in canzone.

Due ore di concerto, quasi venti brani, di quel live celebrativo restano alcune perle. Come una ‘Lupu’, indiavolato manifesto meridionale, eseguita ineditamente al pianoforte e non per questo meno potente. O come ‘Marinari‘, struggente capolavoro sulle fatiche del mare, le albe che tardano ad arrivare, i ritorni mai davvero scontati. In cui, nella maestosa versione di Sant’Agata (Visibile sul Facebook del Teatro Bibiena), alla voce e alla chitarra si associano in un crescendo furioso il basso e la batteria: una versione delle migliori. E poi le perle modugnane: ‘Amara terra mia’, e ‘O Cccafe‘, capolavoro dimenticato da cui molti anni dopo scaturì un altro capolavoro: ‘Don Raffaè’ di Fabrizio De Andrè. E qui tutto torna, perché la prima prova da solista di Peppe Voltarelli, nel 2007, era proprio un omaggio a Domenico Modugno. Lo intitolò ‘Voleva fare l’artista’, dimenticando che, a dire il vero, artista lo era già.