umbertoecoDiceva scherzando Paolo, tra noi studenti di Semiotica a Bologna, che se una cosa può essere pensata, allora di sicuro Umberto Eco ci ha già scritto un libro. Ed è sicuro la pubblicazione più esaustiva a riguardo.

Il bello è che nove volte su dieci era vero. Teorizzatore del tutto, divoratore di storie, reali o fantasiose che fossero, nel 1962  (in netto anticipo sulla rivolta giovanile) Eco lanciò la sua molotov nel mondo della cultura: i libri non sono sempre già scritti, disse. Ci sono anche le opere aperte, e sono portatrici di interpretazioni multiple e sempre nuove, perché il loro significato è mediato dalla conoscenza del lettore.

E’ il big bang delle interpretazioni, dei percorsi infiniti, degli incontri tra informazioni che generano continuamente nuovo senso. E’ Internet. Che sarebbe nato, come fenomeno diffuso, giusto trent’anni dopo. Un luogo fatto di conoscenze enciclopediche personali, dove ogni connessione genera informazione aggiuntiva e ogni risultato può essere raggiunto attraverso infiniti percorsi.

Da lì, non pago, e grazie anche al successo internazionale delle sue idee, Umberto Eco ha fatto molto di più. Ha scaraventato il lettore nella fabula. In tutte le fabule, anche nei versi della Divina Commedia, che esistono grazie a Dante che li ha scritti, sì, ma anche alla cooperazione del lettore che da secoli li legge.

E visto che molti ancora erano scettici il professore, dopo aver a lungo teorizzato, a un certo punto ha messo tutto in pratica. Così è nato ‘Il nome della rosa‘, primo di molti suoi bestsellers, tradotto in tutte le lingue note, dove TUTTI, dal meccanico di Ostuni al medievista della Sorbonna, possono trovare la propria storia preferita. I livelli di lettura sono infiniti. E’ l’enciclopedia bellezza, anzi, diremmo oggi, Wikipedia, dove ognuno può aggiungere o unire due o più dati conosciuti e generare conoscenza in autonomia.

Con il rischio di sbagliare e far sbagliare, certo: tutti possono aggiungere senso alla Divina Commedia leggendola, ma qualcuno, di tanto in tanto, la capisce proprio male. Il problema, più che altro, è che una volta lo faceva nella sua testa, ora invece mette tutto nero su bianco, anzi, byte su byte.

“Internet – ha chiarito infatti  di recente il professore – ha dato la parola agli imbecilli, che prima parlavano solo al bar e venivano subito messi a tacere. Oggi invece i social network hanno promosso lo scemo del villaggio a detentore della verità“.

Un’altra bomba, ma nel frattempo lui stava già guardando altrove: autore di decine e decine di saggi e romanzi, di articoli su quotidiani e settimanali, collezionista di lauree honoris causa. Sono quaranta, dalla Katolieke Universiteit di Leuven, Belgio, nel 1985, all’Universidade de Rio Grande do Sul, Brasile, nel 2014. Oltre a quella originale: Filosofia a Torino, nel 1954.

E ancora: rinnovatore della Rai, editor alla Bompiani e ordinario di semiotica a Bologna, soprattutto, dove ha fondato il Dams, poi Scienze della Comunicazione, quindi a poca distanza il Dipartimento di Comunicazione di San Marino.

In mezzo c’è tutto il bello della sua curiosità. “Posso leggere la Bibbia, Omero o Dylan Dog per giorni e giorni senza mai annoiarmi“, disse. Cosa non ha fatto? E cosa, purtroppo per noi, non farà più.

Restano le sue opere, certo, e i sentieri che ha aperto nei percorsi interpretativi più impensabili. Ma si è persa la guida, il suo senso di orientamento. Era inevitabile. Come quando qualcuno, a un certo punto, inevitabilmente appunto, inciampa sul filo del tuo pc e lo spegne, proprio quando avevi finalmente trovato quello che cercavi. Il danno stavolta non è quantificabile. Sì, il Professore è andato via, ma per fortuna ci ha lasciato le chiavi. L’opera è aperta, e ormai sappiamo come entrare. L’umanità per sempre ringrazia.