Acrobati, Daniele Silvestri (Diceva che ci avrebbe regalato il suo disco più bello, Daniele Silvestri, e se non c’è riuscito è solo per rispetto alla sua più che ventennale produzione. Ha peccato di autostima, chiaro. Avrebbe potuto dirci, più concretamente e in linea con la sua storia, che questa volta era davvero molto ispirato, forse più di qualche più recente produzione. Perché di questo si tratta: Acrobati (Sony Music, 2016) non è il disco più bello di Daniele Silvestri, ma la produzione più coerente con lo stile e lo stupore cui ci ha abituati fin dal tempo del disco omonimo, correva l’anno 1994.

Diciotto brani in cui i testi hanno una cura maniacale, ma di parole soltanto non vivono, supportati da sonorità complete, per nulla scontate, magicamente coese. ‘Quali alibi‘, d’altronde, il primo singolo (supportato da un epico videoclip) aveva dettato la cifra col giusto anticipo. Ché di poeti in musica, ahinoi, ne sono rimasti in pochi, e troppo spesso anche i rapper – ultimi depositari di una storia fatta di rime – ci hanno abituato a banali giochi illusori. Non basta fare rima, no. Da questo punto di vista Silvestri rappresenta un manuale: “Su quali alibi calibri la validità / quali ali di colibrì libri nell’aria / per quali metodi meriti la tua indennità / quali labili crediti credi di avere qua“. E tutti in fila, a prendere appunti. Poi, calembour a parte, c’è la descrizione dei luoghi. Arte che il cantautore romano ha sempre ben frequentato, e che oggi, con ‘La mia casa‘, ci permette di risalire in tram le stradine inerpicate di Lisbona, di vedere, plastici, i colori di Marrachech, di rivivere le contraddizioni di Berlino attraverso la moquette di un ostello “chiaramente riadattato, come tutto in questo splendido casino organizzato, dove niente è come sembra o perlomeno niente è più come era stato. E tutto quanto intorno me lo insegna, ché il passato qui è già stato fatto a pezzi come un muro, qualcosa ne è rimasto per orgoglio, tutto il resto invece è proiettato nel futuro“. E, onestamente: avrebbe senso aggiungere altro, fosse anche un’altra parola, per descrivere Berlino?

Meglio passare ad altro. Per continuare a stupire con costruzioni sonore mirabilmente silvestriane, fatte di cavalcate acustiche, ritmi crescenti, romantica melodia. E poi stupore nel sentire, secondo dopo secondo, che la sintonia con l’ascoltatore arriva fino al punto esatto in cui la voce, da dentro lo stereo, fa esattamente quello che ascoltando ci saremmo aspettati in quel punto, sia esso l’imitazione di un muezzin (‘La mia routine‘) o la parolaccia di fronte ai dubbi nevrotici sul proprio amore che non torna (‘Pochi giorni‘). Mica cose semplici. Perché da un lato c’è l’esatta prevedibilità di un testo-canzone, fatta di concezioni piane e schemi rodati, in sempre, dopo amore, viene cuore, e in un dramma romantico a un certo punto spunta un Si, possibilmente minore. Banalità, direbbe l’autore, che difatti le rifugge. Concentrando l’occhio solo su quello che, in un quadro quotidiano, avrebbe senso conservare. E non si tratta per forza di cose epiche o di chissà quali grandi classici. Vedete: ci sono due correnti di pensiero. Chi non accetta che nelle opere d’arte, nate per restare, possano entrare accenni alla vita vera e al tempo attuale, e chi invece, nell’ansia di raccontare il panta rei, ci propina dosi massicce di inutili quotidianità. Il punto di mezzo è un brano che descriva il senso dei luoghi, (è sempre ‘La mia casa’) e che a un certo punto, parlando di Parigi e della sua romantica dignità, insieme alla Bastiglia appoggia un Bataclan. E va bene che ci vuol fortuna, quando l’attualità fa rima con Notre-Dame. Ma la fortuna da sola non basta mai: ci vuole stile a farlo davvero, e a farlo bene, così come ci vuol coraggio a scherzare oggi sul cibo bio (‘Bio boogie‘), dicendo quello che tutti, anche i più accorti, pensiamo senza poter dire.

Infine c’è la poesia dell’ironia tout-court. Come fare un pezzo sul sale, featuring Caparezza, e concluderlo davvero con un ‘salerò, salerò’, auto-sberleffo a uno dei suoi successi migliori, lasciando basito ancora una volta chi quello sberleffo lo ha pensato e mai si sarebbe immaginato di ascoltarlo davvero. E’ che certi schemi, Silvestri li ha innati. E gioca da sempre con l’Arte alta con gli strumenti dell’artigiano. Estraendo la poesia del quotidiano, cantando il pin del cellulare (e il dramma di dimenticarlo) come si farebbe di temi nobili e immortali. Sapendo distinguere, nel flusso di cose che vediamo ogni giorno, cosa passerà e cosa invece, inevitabilmente, si butterà nell’immortale. Così fa Silvestri come faceva Lucio Dalla, grande mago di certe descrizioni in cui la stella più luminosa e bella, altro non era che l’insegna pubblicitaria del brodo star. Non a caso questo disco è dedicato alla memoria di Dalla. Maestro indiscusso di cui Silvestri appare oggi il migliore, forse l’unico degno erede.