maumau_8000Ottomila chilometri non sono pochi. Tanto è lo spazio, spiegano i Mau Mau nel loro disco del ritorno (8000 km, Godzillamarket/Universal), che separa il Nord del mondo dal Sud, i barconi dalle basiliche, le lingue dai dialetti e i tatuaggi sul petto. Meglio ancora: ottomila chilometri separano il Kenia, dove negli anni ’50 l’esercito di liberazione da cui prende il nome la band lottava per l’indipendenza dai coloni inglesi, da Torino, dove nel 1991 un chitarrista e un fisarmonicista allora trentenni incontrano un percussionista camerunense e insieme decidono di dar fuoco alle polveri.

L’orizzonte a cui mirare è  Patchanka: un disco di tal Manu Chao e della sua sconosciuta band, i Mano Negra, che nel 1988 decide di scombinare l’ordine costituito, mescolando alla bella e meglio il reggae con lo ska, la chitarra flamenco con il rock, e poi il punk, il funk e una babele di lingue, tra francese, inglese, arabo e spagnolo. Un gran casino organizzato, insomma, che in poco tempo diventerà uno stile musicale a sé stante.

La patchanka, diventata nel frattempo un genere, la sposeranno quattro anni dopo quei tre ragazzi, nobilitando il dialetto piemontese a lingua artistica. Un fatto epocale, visto che dialetti in musica, escluso il napoletano, lingua artistica a sé, erano all’epoca una cosa che prima di allora, si erano permessi solo De Andrè con il genovese di Creuza de ma e Jannacci con il milanese, contando sul fatto di essere già De Andrè e Jannacci. Ecco: pochi anni dopo quel primo disco dei Mau Mau, in Italia lo fece praticamente chiunque e con qualunque parlata locale, dando vita alla nuova musica popolare che negli anni ’90 e 2000 ha sdoganato i dialetti tutti.

Premessa doverosa per dire che se – dopo uno scioglimento, un fugace ritorno e una nuova pausa – un gruppo di nome Mau Mau pubblica un disco, l’obbligo fatto agli amanti della musica è quantomeno di ascoltarlo. Anche se i tempi non sono più gli stessi, con Manu Chao che suona sempre più di rado, Capossela a fare il poeta e i Modena City Ramblers – una volta onnipresenti -, oggi sempre meno nominati.

Si è fatto un gran casino, sì, ché la patchanka altro non è che energia e confusione. E questo 8000 km – manco a dirlo – quell’energia l’ha conservata tutta, preziosa e intatta. Sarà l’estro dei fuoriclasse di Morino, dei Barovero e dei Tatè Nsongan, o forse c’è dell’altro. Ad esempio la di fermarsi, dopo tanta festa. E capire che a saltellare su di un palco ogni sera, a vent’anni come a cinquanta, c’è una gran bella differenza. “Per fermarsi ci vuol talento”, dicono infatti i Mau Mau, nel brano che chiude il disco, e mai è stato così vero.

Come sarebbe stato questo album, se non fossero passati dieci anni esatti di oblio dall’ultimo ‘Dea’, a sua volta frutto di una pausa? Meglio non domandarselo. Molto meglio chiudere gli occhi e sognare il circo immortale di ‘Moira’, viaggiare nella ‘Grande pianura’ che rinasce dopo il terremoto, attraversare con lo sguardo quegli ‘8000 km’ che ci separano dall’Africa e prendere questo disco come un regalo inaspettato della maturità e del tempo. Dono di chi ha ancora voglia di ballare e mescolare. E se ci riesce ancora è perché ha capito quando è il momento di riprendere fiato. Come diavolo faranno d’altronde i ciclisti a dominare certe vette? Dosando il fiato, e apprezzando il silenzio. Serenamente pronti a scatenare l’inferno. Grazie, Mau Mau.