I Red Hot come i Beatles? L’ipotesi non è peregrina, se la si prende per il giusto verso. Cominciando col circoscriverne i confini: i Red Hot sono come i Beatles, inarrivabili per Costituzione, in un caso specifico: quando dimostrano di saper rispondere a una necessità di sperimentare, di divertirsi, pur non tradendo mai la propria marca commerciale. Così è stato con ‘The Getaway’ (2016, Warner): quel disco che da loro ti saresti aspettato, ma che va ben oltre quello che sapevi di trovarci. Poi, da sempre, beatlesiani sono i loro ingredienti. Come l’uso magistrale che i Red Hot fanno dei coretti. Coretti, non cori. Polifonie di vocali cantate a bocca chiusa, nulla più, ma in grado di riempire gli sfondi e i pertugi con un tappeto melodico che non può, mai, non sapere di romantica magia.

Infine beatlesiano è l’insieme, che anche per loro non è una somma dei singoli. Quanti, troppi gruppi, sono il cantante, o il chitarrista? I Red Hot hanno un solo cantante, Anthony Kiedis, ma se dici Red Hot non è solo a lui che sei abituato a pensare. Piccolo vulnus: in quella foto d’insieme una volta c’era John Frusciante, il chitarrista-genio, la cui banale elementarità sonora ha più volte dimostrato al mondo che l’arte non deve tributi al virtuosismo. Nella lunga vita della band, John Frusciante non c’è sempre stato. Ma paradossalmente di tutta la storia del gruppo ha sempre accompagnato la cifra migliore. Era andato via già una volta, è quando è tornato ha portato in dote un disco da teca come Californication, degnamente seguito da By the way. Allo stesso modo i suoi addii hanno sempre coinciso con un appiattimento su se stessi.

Bisognava uscirne, subito. Trovare una via d’uscita o condannarsi all’oblio, alla ripetizione matematica di quella somma di note. Ed è per questo che è nato The Getaway, la via di fuga appunto. In questo torna utile Flea: quel folletto dai capelli verdi, una pulce, il cui suono prototipico di basso, insieme al tono di voce di Kiedis, rappresenta da sempre la marca sonora dei Red Hot. Il suo basso, e sono pochi i casi del genere, da sempre costituisce ben di più che una base ritmica. La struttura portante, piuttosto. La melodia primaria. E con essa l’arte pura della band. A questo si sono abbarbicati in The Getaway i peperoncini rossi piccanti, per provare a uscire dai postumi dell’ennesimo abbandono. Un essenziale appiglio di identità che una volta tanto si è rivelato un antidoto riuscitissimo. Serviva coraggio e  l’ha trovato Flea. Non solo con il suo basso identitario, ma con l’intera costruzione artistica di un disco che, una volta tanto, è molto opera sua. La dimostrazione non è un basso: è un pianoforte. Etereo, pulito, suonato da Flea in prima persona. Un piano che ne primo singolo estratto dal disco, Dark Necessity, ha dimostrato come un brano dei Red Hot possa ancora stupire.

E poi c’è quel braccio rotto. Nel bel mezzo della produzione del disco, questo strampalato bassista cinquantatreenne non ha rinunciato a fare il pazzo sul suo snowboard. Ma è caduto, e ci ha rimesso il braccio. Risultato: lavoro fermo ad interim. Forse da buttare. Anche perché, racconta con angoscia lo stesso Flea, anche quando il gesso è andato via, il braccio in questione non era più il suo. Ecco: i Red Hot sono concordi oggi nel dire, intervista dopo intervista, che The Getaway sia nato da quella frattura. Plurali, se ci si conta quella causata dall’addio di Frusciante. Cesure fisiche, concrete, che hanno imposto di rifare tutto. Rimettersi a tavolino, ricostruire, rimodulare. Rischiando l’osso del collo, per provare ad aprirsi strade inedite: operazione complessa per dei vecchi gatti come loro.

E poiché il risultato alla fine è arrivato, per raccontarlo, da buoni americani, i Red Hot hanno scomodato nientemeno che Ticonderoga. Nome di svariate grandi navi e luogo epico per gli americani: la base inglese che fu espugnata durante la Guerra di Indipendenza per mano di una ventina di indipendentisti, e poi di nuovo persa in battaglia. Ticonderoga è anche il titolo di un brano di questo disco. Guarda caso il più autobiografico. Il suo senso, preso alla lontana, suona più o meno così: “Ho incontrato il membro di una rock band, mi ha chiesto se volessi andare con lui. Gli ho fatto sapere che non potevo: ho la mia band. Siamo tutti soldati nel campo di battaglia della vita, e il mio appetito brucia. Questo Ticonderoga è un elemento che brilla: tra noi e la grande incognita tra noi ci sono delle linee. Io però, quando ho una dannata paura, posso contare su un po’ di compagnia: chiamo il mio migliore amico, Flea”. Magari ne esce un bel disco.