Tania Cagnotto, bronzo al trampolino femminile, Rio 2016Dice: tutti bravi voi, a ricordarvene ogni quattro anni. Tutti sportivi fino al midollo, appassionati di lotta libera e tuffo sincronizzato solo per due settimane. Il riferimento – e quante volte lo abbiamo sentito in questi giorni – è ai ‘turisti’ degli sport olimpici. Quelli che al mattino hanno chiesto al vicino di ombrellone le regole della pallavolo (dopo quanti set si vince?) e la sera al bar già pontificavano sul lancio sporco e poco tecnico dello zar. Già, lo zar: in questi giorni su Google la parola più cercata non è ‘zar’ o ‘Zaytsev’, ma ‘zar pallavolo‘. Indice di quanto il sistema di completamento dei motori di ricerca, oltre che molto utile a risparmiare tempo di digitazione, sia una bomba nello smascherare lo scarso livello di conoscenza dell’utente medio.

Il concetto allora è il solito: più della metà degli italiani non conosce il mondo oltre al calcio. I più convinti anche la Formula uno o il Motogp. In alcune città, vedi Bologna, il basket. Punto. Eppure in questi giorni mezza Nazione si è scaricata l’app ‘Rio 2016’ della Rai, si è sintonizzata fisso su RaiDue e RaiSport, è stata sveglia fino all’alba per una finale di beach volley e si è infiammata con chiunque incontrasse per l’esclusione di Schwarzer, pur se in cuor suo non gli fosse chiaro se l’alto atesino corresse la marcia o la maratona. “Ecco un altro che pontifica”, penserà il lettore. Macché: chi scrive, basta chiedere un po’ in giro, rientra appieno nella situazione appena descritta. Deplorevole, ovvio, visto che lo sport è cultura, e la cultura non dovrebbe avere confini o zone mai frequentate. Ma il punto è: non servono forse anche a questo le Olimpiadi? Non sono l’evento migliore per puntare i riflettori dell’informazione generalista e dell’attenzione di tutti, nessuno escluso, su quegli sport per i quali durante l’anno nessuno si sognerebbe di star sveglio la notte?

Torneremo nel torpore, certo. Smetteremo di esercitare il nostro occhio nel giudicare un tuffo dal numero di schizzi o dal grado di ingresso in acqua e sarà un peccato, visto che ci sembrava di essere diventati bravini. Sarà servito? Sì. Perché qualcosa, tutti continueremo a imparare di Olimpiade in Olimpiade. Bisognerebbe esserne certi, almeno quanto siamo tutti giustamente convinti che le Olimpiadi siano necessarie alle nuove generazioni assuefatte ai Pokemon e avulse al salto con l’asta. Poi: serve per forza un evento mainstream per appassionarli ed appassionarci? Anche stavolta la risposta è sì. Perché nel caos di stimoli quotidiani in cui viviamo, le scelte cui siamo costretti si fanno sempre più drastiche e l’attenzione dura un lampo. Per fare presa sulle moltitudini, uscire dalla nicchia, le cose vanno urlate, sparate altissime, devono diventare pervasive. Funziona già così con i programmi di culto, i tormentoni estivi, i videogiochi per smartphone… Perché dovrebbe essere applicare l’assioma al giavellotto?

Alla causa, infine, forse potrà servire un aneddoto. C’era un paesino di contadini, dalle mie parti, in cui il locale Ginnasio non demordeva a mettere in scena ogni fine anno nella piazza centrale (piuttosto che nel cortile della scuola, come si confà), una tragedia greca. La rabbia di noi studenti montava contro al professore che si ostinava ogni anno a farci deridere dalla cittadinanza indifferente. ‘E’ un sadico o uno sciocco’, pensavamo. Poi un giorno rimanemmo imbambolati nel vedere un omone pieno di baffi percorrere in volata col suo Apecar i tornanti in direzione dei campi, urlando al vento un verso della Medea di Euripide messa in scena il giorno prima. Frega a qualcuno che non sapesse chi era Euripide? La cultura è pervasiva.