imgresDopo una gara senza esclusione di colpi, alla fine a Sanremo ha trionfato Niccolò Fabi. Sua la targa per il miglior album dell’anno, “Una somma di piccole cose”, seguito da “Folfiri o Folfox” degli Afterhours, da “Canzoni nascoste” di Gerardo Balestrieri e “Canzoni della Cupa” di Vinicio Capossela. La miglior canzone dell’anno, invece, per la giuria è “Bomba intelligente” di Francesco Di Giacomo, cantante del Banco del Mutuo Soccorso di recente scomparso, brano poi ripreso e completato dagli Elio e le storie tese. Ex aequo per il miglior brano in dialetto tra “Com un soldat” di Claudia Crabuzza e “O sanghe”, che segna il ritorno di James Senese e della storica band dei Napoli Centrale. C’è dialetto anche nella sezione interpreti, dove Peppe Voltarelli vince a mani basse con “Voltarelli canta Profazio”, rilettura dell’opera del cantautore calabrese Otello Profazio. Da segnalare, infine, una grande opera prima: “La fine dei vent’anni”, disco di esordio del cantautore Motta. Tutti i vincitori, e molti altri ospiti, saranno protagonisti sul palco dell’Ariston dal 20 al 22 ottobre.

Alzi la mano chi ha capito di cosa stiamo parlando.

Ecco, appunto. Questa è l’essenza del Premio Tenco: conosciuto e riverito tra gli appassionati e gli addetti ai lavori. Anonimo, dopo 40 anni, al grande pubblico. In linea con i piani, d’altronde: nell’idea originaria del club di giornalisti musicali che lo idearono, il Tenco altro non era che un riconoscimento al cantautore, possibilmente alla carriera, meglio se internazionale. Era il 1974: a Sanremo c’era il Festival, per le voci nuove andava forte Castrocaro, le hit popolari si ritrovavano nelle piazze con il Festivalbar e per i non allineati e gli indipendenti c’era sempre il Mei di Faenza. Le Targhe Tenco nacquero invece dieci anni dopo, in aperta polemica con il mainstream, per premiare la qualità anche quando non aveva le forze economiche o di pubblico tali per arrivare a Sanremo.

In ogni caso il Tenco, ammettiamolo, è sempre stato un po’ snob. Declinazione musicale di quell’atteggiamento cinematografico d’essai, in cui un disco è bello solo se nessuno lo conosce, se i suoi brani contengono almeno una quota di parole astruse, se nell’arrangiamento è presente uno strumento esotico o perduto. Si esagera, volutamente, e per affetto. Anche perché, e questo è paradossale, il Tenco è oggi l’unica cosa che ci rimane. Morto da tempo il Festivalbar, vivo a spinta Castrocaro, perché ormai i nuovi talenti spuntano in tv, ridimensionato a festa locale il Mei, sopravvive solo il Festival, ma per farlo ha dovuto pronarsi ai talent, e accogliere le torme dei cantanti senza cognome (ma televotatissimi e vendutissimi, quindi campioni), vendendosi alla logica secondo la quale un ‘big’ della musica è un volto noto in tv, anche se ha 18 anni e non ha mai pubblicato un disco.

In questo marasma il Tenco, quel club di giornalisti snob, pur nella perenne crisi di finanziamenti e nel silenzio dei più, ha dovuto sobbarcarsi tutto il peso della musica italiana. Non più essai, ma riserva indiana, l’ultima rimasta, dove si è barricato chi la musica la scrive e la incide senza l’aiuto dell’applausometro. Quale tragico destino, quale nemesi: da nicchia di ricerca a fortino musicale per assenza (anzi decadenza) dei concorrenti. Meglio ora che prima, certo. Ma non è paradossale che un Paese con così tanta cultura artistica debba ridursi in questo stato?

Ridateci il resto, allora. E torni al Tenco la puzza sotto il naso!

Starà giusto di fianco alla medaglia per la resistenza musicale che, nel frattempo, quel club di giornalisti un po’ snob si è meritato di diritto.