ligabue-madeinitalyQuella che segue è una confessione. O un outing, come si dice oggi. E’ anche un affare, economicamente parlando: 18 euro in cambio di un album che da mesi è in cima alle classifiche. Se non fosse che il disco in questione è ‘Made in Italy‘, l’ultima fatica di Luciano Ligabue.

Dove sta la vergogna? Ce ne sono almeno un paio. Una è una collettiva, l’altra personale. La prima segue la vox populi, che impone ai cultori della musica, e a maggior ragione quelli del rock, di stare alla larga dal mainstream, soprattutto se italiano. La seconda riguarda chi, come scrive, è nato nei primi anni ’80 e ha da tempo con Ligabue una relazione complicata. Fu l’artista di Correggio, difatti, ad aprire gli occhi di molti adolescenti di quegli anni, magnificando la provincia italiana a suon di rock ‘n’ roll, sulle note di ‘Buon compleanno, Elvis’, di un epico tour e doppio live (‘Su e giù da un palco’) e un film culto, ‘Radiofreccia’.

Fu Ligabue con quelle opere, e con le precedenti, a descrivere meglio di ogni altro l’Italia degli anni Novanta, confusa tra gli ultimi respiri di un mondo che andava a gettoni e si spendeva nei bar, e la rivoluzione digitale che entrava allora nelle case a passi lenti, passando a fatica dai doppini telefonici. Poi cos’è successo? Niente di nuovo: l’esordiente del Bar Mario è diventato una rockstar. E le rockstar, neppure per colpa loro, non vivono più nel nostro mondo, bensì nell’iperspazio. Un ambiente protetto, fatto di privacy, relazioni certificate, filtri e non-luoghi. Stupidi hotel buoni per Vasco (sia da un vaschiano, quindi senza ironia), che ha sempre ha nutrito la propria opera di sentimenti e dissidi interiori. Ma una prigione per chi, come Ligabue, era perfetto per descrivere il mondo e si nutriva di strada che, da quella nuova posizione, non vedeva più.

Sono stati anni duri, come negarlo. Scanditi dai testi universali e plasticosi di ‘Fuori come va?”, “Nome e cognome”, “Arrivederci, mostro!”, “Mondovisione”: una parabola dal duplice effetto, poiché ha cancellato Luciano Ligabue dai cuori dei vecchi fan e al contempo ha portato il Liga nel cuore di milioni di persone. Tutto normale, è la prassi. Ma quell’occhio narrativo, se c’era, non poteva sparire senza lasciare traccia. E difatti, vent’anni dopo i fasti di Elvis, anticipato da un singolo che non gli rende per nulla onore (‘G come Giungla’) è arrivato ‘Made in Italy’. Paragoni? Dio ce ne scansi. Eppure, rimanendo ai fatti, non c’è dubbio che Ligabue sia tornato a raccontare come sa fare lui. Sui motivi è inutile indagare. Meglio concentrarsi sul come: quattordici brani intrecciati tra loro, sulla falsariga di un romanzo rock. E una storia, quella di ‘Riko’, che dall’adolescenza e i banchi di scuola porta fino all’età adulta, i traguardi, i problemi e poi di seguito il tracollo, il divorzio, i licenziamenti, le botte.

Sarà ancora una volta questione di realtà, visto che il Paese è diviso, la crisi è endemica e nessun filtro può più funzionare. Fatto sta che i testi sono ritornati limpidi, sinceri, carichi, rabbiosi. E anche la narrazione è diretta, schietta e lineare. Degna del miglior romanzo di formazione, e con in più una colonna sonora che dopo anni, finalmente, non sa di precotto. C’è del rock, ed è ben fatto. Ci sono strumenti suonati e poco sintetizzati. C’è un ritorno alle chitarre e alle sonorità di un tempo (merito del ritorno in grande stile di Max Cottafavi, il primo chitarrista), che si sposa alla perfezione con le note da grandeur di Federico Poggipollini. E infine ci sono arrangiamenti. Organizzati con perizia da Luciano Luisi, che oltre a firmare un’ottima produzione artistica ha il pregio di aver riportato certe tastiere Nineties, che sanno molto del disco omonimo e di quello dopo, l’epico ‘Lambrusco coltelli rose e pop corn’. La novità, infine, arriva dai tre fiati: trombe, flicorni (Massimo Greco) e due sassofoni (Emiliano Vernizzi e Corrado Terzi). Sono loro la chiave di volta, innescati su una base rock che Davide Pezzin al basso e Michael Urbano alla batteria sanno apparecchiare con più sfarzo che mai. Così suona Made in Italy, ed è un bel sentire. Non dirlo in pubblico è proprio roba da fighetti.