E’ un dramma soave, L’Arminuta, Einaudi, opera terza di Donatella Di Pietrantonio. Una contraddizione in termini, o piccola storia pazzesca. Narrata al presente in un tempo passato, quello dell’adolescenza, e fatta di tristezze infinite e minuscole gioie che si avviluppano sullo stomaco di chi legge, strato dopo strato, pagina dopo pagina, eppure non pesano affatto.

Sono come le farfalle nello stomaco, piuttosto: arrivano a ricordarti che sei fatto di carne e certe vicende, belle o brutte non cambia, sono più un fatto fisico che un pensiero complesso. Come le giornate della piccola Arminuta (la ‘ritornata’, in dialetto abruzzese di montagna), di cui sappiamo tutto eppure non conosciamo il nome. Una ragazza nata e cresciuta in una famiglia normale, mediamente agiata, in riva al mare. Ha una casa con giardino, l’amica del cuore, gli ottimi voti a scuola, i primi sguardi dei ragazzi e poi la danza, il nuoto, i regali e le feste di compleanno.

Un patrimonio di normalità che, va detto, finisce prima della prima pagina. In quel giorno preciso e ben delineato, poiché rimuginato troppe volte, in cui suo padre e sua madre le dicono che non è mai stata figlia loro, che tutto quello che ha saputo di sé fino a quel momento è falso, e che dietro alla porta della casa fatiscente, in quel paesino di montagna dove l’hanno portata, c’è la sua unica vera famiglia. Con una madre perennemente arrabbiata, un padre che non spiccica una parola, una tavola dickensianamente sempre vuota e un numero inverosimile di fratelli e di sorelle che a lei, l’Arminuta, così pulita, sensibile, acculturata e riservata, proprio non la reggono.

Come se fosse una colpa, poi, essere data ancora in fasce a un lontano parente, e chissà perché un bel giorno restituita. A questo punto della storia, però, il lettore, gli piaccia o meno, dovrebbe essere pervaso da tristezza e dolore. Se non accade – e non accade – è solo grazie al dono raro che ha Di Pietrantonio di raccontare i drammi umani con un tatto, una sensibilità e una leggerezza che cura ogni ferita nel momento stesso in cui la crea. Un’arte vera, la sua, fatta di stile, parole e rispetto delle cose umane. Come il Benigni che ci fa ridere mentre piangiamo ne ‘La vita è bella’,  e forse di più, anzi, perché ne L’Arminuta non c’è traccia di comicità. Soltanto aria pura, semplicità, odori, pelle, e quel dialetto crudo e spigoloso, l’abruzzese di montagna, che la protagonista subisce ma non sa parlare. Una lingua pizzuta e martellante, semplice – fatto di strutture più che di parole – che sa corrodere le sovrastrutture psicologiche e culturali e smonta qualunque armatura. Mettendo tutto a nudo, alla fine: spogliando tutto, perfino il dolore, soprattutto il dolore, fino a renderlo quasi innocuo. Tant’è che l’Arminuta, a ben guardare, vive il suo dramma in una condizione di privilegiata: lei che ha studiato, ha conosciuto il mare e i regali e in fondo – glielo ripetono in continuazione in famiglia – tra tutti loro è quella che la fortuna ha baciato.

Resta solo un mistero, una macchia nell’anima ed è il perché quei due lì, a un certo punto l’hanno riportata indietro. Un tarlo che, sì, potrebbe distruggere tutto, e se non lo fa è solo perché si scontra, giorno dopo giorno, con una realtà già così scontrosa di per sé da risultare più vera e dignitosa di qualunque altra condizione. Lo scoprirà, certo, e il lettore con lei, perché l’hanno abbandonata. Si stupirà per non averci pensato, sgranerà gli occhi e stringerà i denti, ma neanche stavolta ci sarà spazio per la malinconia. ‘Chè la protagonista nel frattempo ha riscoperto le sue radici, quelle vere, che affondano dritte nella terra d’Abruzzo e non le scardina nemmanco un vento che frèghete.

Per tutto questo l’Arminuta è un libro da leggere e consigliare. Un piccolo capolavoro di gioia, da ricordare con un sorriso negli anni a venire, come quel pugno nello stomaco che una volta da adolescenti ci ha resi liberi, perché al suo arrivo, indifesi com’eravamo, ci siamo contratti dalla disperazione, scoprendo la forza che non sapevamo di avere.

Simone Arminio