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Addio a Otello Profazio, l’ultimo cantastorie

La prima istantanea è in Sila, in estate. Un concerto a Camigliatello, o a Villaggio Mancuso, non ricordo. Avevamo raggiunto il retro del palco, determinati a conoscerlo di persona. Vedendolo, finalmente: "Maestro, davanti a lei m'inchino", gli aveva detto uno di noi. Lui aveva avuto bisogno di schermirsi di fronte a quella adulazione, lo aveva guardato sornione, aveva detto: "Minchino?" Ovvero lei mi sta dando della 'piccola minchia'... Eccolo, l'incorreggibile. Con una battuta aveva chiuso la partita dei convenevoli. Era già molto avanti con gli anni, Otello Profazio - morto stamattina a 88 anni a Reggio Calabria - eppure aveva appena suonato due ore, manco fosse Bruce Springsteen.

La seconda istantanea è sul palco dell'Ariston, dove il maestro del folk era arrivato, in colpevole ritardo, nel 2016, grazie a un disco di Peppe Voltarelli, il suo erede naturale. "Voltarelli canta Profazio": una piccola gemma per chi ama la musica popolare. Canzoni senza tempo finalmente rivestite di quello stile cantautorale che, negli anni '70, la musica folkloristica, troppo bassa, non poteva concedersi. Furono mattatori al Premio Tenco: Voltarelli la targa di migliore interprete di canzoni non proprie e Profazio un meritato premio alla carriera.

Ma basta fare un giro nella produzione in sordina di questo ultimo cantastorie per capire che uno spazio tra gli aedi laureati, in fondo, lo avrebbe dovuto avere di diritto. Perché profazio giocava con l'ironia e viveva con la tradizione, senza con ciò mai scadere nell'ovvio. Anzi: usava chitarra e stornelli  per lanciare massi contro una società meridionale che amava al punto da punzecchiarla in ogni momento. Rabbia, amore, sentimento.  Con "La leggenda di Colapsesce", "Lu me paisi" e poi, ovviamente l'ironia di "Qua si campa d'aria", il suo brano più famoso fuori dalla sua Calabria che risulta oggi di una attualità spiazzante.

"Il mare è azzurro-verde sperlucente / Qui non si vide mai roba inquinante", cantava nel 1973, e chiunque di noi ci ha ripensato quando, nei primi due mila, sono spuntate le prime 'Navi dei veleni' piene di rifiuti tossici al largo del Tirreno. Oppure la presa in giro della mafia: "Il Sud è proprio un vero paradiso / Se vuoi morir devi morire ucciso". E la critica sociale verso la sanità e la sua mala gestio:  "Qui non si sa cos'è la malattia/E non capisco con quale causale/ Ogni città ci fanno un ospedale". Ma poiché ai suoi occhi il sud non è mai stato senza colpe, ce n'era pure per noi stessi: "E si son messi in testa i governanti/ D'industrazzaliarci tutti quanti / Fatevi i fatti vostri, ché non urgi /avere al Sud i centri siderurgi / Che bisogno c'è di lavorare / Cu 'sto cielo, 'sta luna e cu 'sto mare?.

Ma non aveva paura di usare altri registri, Profazio. Come quando su testo di Ignazio Buttitta aveva musicato 'Mafia e Parrini', cantato poi anche da Rosa Balistrieri. Un lucido atto d'accusa sulle connivenze tra cosche e religione, i saluti della statua del santo sotto casa dei boss, le deviazioni millenarie: "La mafia e i preti / si diedero la mano / se uno alza la croce / l'altro punta e spara / uno minaccia l'inferno / l'altro la lupara".

Entrambi i brani erano contenuti in 'Qua si campa d'aria', Fonit Cetra. Era il 1974. Profazio vinse il disco d'oro, viaggiò per il mondo, suonò per gli italiani all'estero. Poi presto ritornò con dignità, e amore per le radici, a fare il cantastorie a casa propria, nelle sagre di paese. Dove tra una 'Canzone del ciuccio', un inno ai pastori e una battuta, ha continuato per anni a lanciare i suoi sottotesti. E chi aveva orecchie per intendere, ha sempre inteso. Tutti gli altri, non capendo che si parlava di loro stessi, hanno comunque ballato e battuto le mani. E' questa la più celebre delle 'profaziate', come la gente chiamava le sue alzate d'ingegno. Quella riuscita meglio. Maestro, 'minchino! Eri un gigante tra i nani. Ti saremo per sempre grati.