C’era una volta un pulcino. Con le piume bagnate e lo sguardo perso nel vuoto. Lo sguardo di chi, per intenderci, si guarda intorno alla ricerca di un volto amico o di una mano alla quale aggrapparsi per non affondare.  Ce lo ricordavamo così, C.J. Watson. Arrivò a Reggio nell’estate del 2006, a 22 anni, con la faccia imberbe da ragazzino appena uscito dall’università. Straordinari mezzi fisici, tecnica non raffinatissima, tattica cestistica sotto zero. Il suo agente era lo stesso di Mike Penberthy, che Reggio voleva a tutti i costi. Così l’arguto procuratore decise di approfittarne e di cogliere due piccioni con una fava dando vita ad una trattativa unica con la società biancorossa. Per la serie: «Vi do Penberthy solo se mi prendete anche Watson…». A ben pensarci, se il club cittadino avesse lasciato entrambi dove si trovavano, avrebbe fatto l’affare del secolo. E forse non sarebbe retrocessa in LegaDue alla fine di una stagione disastrosa sotto molti punti di vista. Invece la <premiata coppia> approdò in via Emilia. Penberthy era ormai stracotto, Watson acerbissimo. Il giovane play giocò 18 partite con un rendimento a dir poco deludente (8,5 punti di media a partita con il 24% di realizzazione al tiro da 3 punti), vittima, oltre che della sua inesperienza, anche di una squadra che fece di tutto, e di più, per creargli problemi. Nella nostra mente c’è una sorta di fotografia indelebile di Watson a Scafati. Era solo la seconda gara stagionale e il buon C.J vagava sul parquet con lo sguardo perso nel vuoto, mentre l’allora Bipop affondava indecorosamente (sconfitta finale per 87-70 solo perché i campani decisero di non infierire…). Il ragazzino statunitense si guardava disperatamente intorno in cerca di un appiglio che nessuno gli forniva. Fin quando Pasquali lo richiamò in panchina, regalandogli un sospiro di sollievo e togliendolo da quella sorta di inferno da cui non sapeva come uscire. Un pulcino con le ali bagnate, per l’appunto. Watson restò a Reggio fino a marzo e si cercò in tutti i modi di rivitalizzarlo cambiandogli, inutilmente, anche ruolo. Poi la sua avventura in biancorosso si concluse ingloriosamente senza rimpianti da parte di nessuno.
L’abbiamo ritrovato, del tutto casualmente, domenica sera, C.J. Watson. Le gambe allungate sul divano a goderci, in un’inedita maratona televisiva, due partite dei nostri amati Boston Celtics. Prima la rocambolesca e incredibile sconfitta con i Lakers di Kobe Bryant, poi, in diretta, la partita con i lanciatissimi Bulls guidati proprio da C.J. Watson, promosso a leader della squadra per l’infortunio di Derrick Rose. Come l’abbiamo ritrovato il nostro pulcino? Mah…, vi diciamo la verità: malgrado il pizzetto e l’accenno di barba ad incorniciare il volto da eterno ragazzino e malgrado i 22 punti e i 6 assist non ci ha esaltato. Sicuramente non è più un pulcino e non ha più le piume bagnate. Ha sempre una grande fisicità con la quale riesce a farsi rispettare anche ad altissimo livello. E’ cresciuto dal punto di vista della personalità, tanto da prendersi, in modo anche un po’ sciagurato, le due conclusioni che avrebbero potuto dare il successo a Chicago e che, invece, hanno condannato alla sconfitta i <Tori>. E’ riuscito, negli anni, a costruirsi un tiro dalla media e lunga distanza, che a Reggio non aveva mai messo in mostra e che era stato il suo vero tallone d’Achille. Dal punto di vista tattico è rimasto, però, il giocatore modesto che ci ricordavamo. E anche per questo suo limite, alla fine Boston l’ha spuntata malgrado Pierce e soci abbiano fatto di tutto per buttare via la seconda partita in 4 giorni. Certo è che vedere Watson giocare da protagonista nella NBA fa sorgere spontanea la solita domanda: perché un giocatore del genere fallì clamorosamente e miseramente a Reggio?
Il motivo principale è uno solo: arrivò in Italia troppo presto. La serie A era un campionato che presentava una serie di ostacoli altissimi per un ragazzo che aveva sicuramente delle qualità, intraviste nelle sue migliori prestazioni, ma anche limiti evidenti. Per di più finì in una squadra che era una voragine senza fine e che divorò tutti i protagonisti di quella infausta stagione. Watson avrebbe avuto bisogno di giocare, almeno per una stagione, in un campionato più abbordabile, magari in Belgio o nell’Est europeo. Con un po’ di esperienza  sarebbe sbarcato in Italia più maturo e, probabilmente, non avrebbe fallito. Oltre a ciò va sottolineato che le sue qualità si adattano perfettamente alla NBA, dove prevale la fisicità e dove ci sono molti meno tatticismi rispetto al basket europeo. Tutto questo, paradossalmente, ha fatto sì che uno scarto della Pallacanestro Reggiana sia diventato protagonista nel più importante campionato di basket del mondo. Proprio vero: c’era una volta un pulcino…