“Gli uomini in nero si stanno preparando all’attacco. La popolazione di Raqqa sarà la loro coperta. Chi tenta di uscire dalla città viene arrestato e poi mandato a rieducarsi all’ideologia dell’Isis”. Parla Hussam Eesa, 27 anni, portavoce di “Raqqa viene massacrata nel silenzio”, in sigla inglese Rbss, 17 indomiti che vivono nella capitale del sedicente Califfo al Baghdadi nel nord della Siria e 10 all’estero, un gruppo che tenta di raccontare la vita in città senza fare sconti a nessuno. Assieme a lui c’è Abdelaziz al Hamza, 24 anni, un ragazzone dinoccolato che mi mette in mano un biglietto da visita sul quale domina, su tutti e due i lati, una macchia di sangue. Eesa e Hamza sono riusciti a riparare in Germania. In novembre due militanti del collettivo sono stati uccisi in un appartamento a Sanliurfa, in Turchia. L’ultimo martire è Naji Jerf. A Gaziantep, sempre in Turchia, è stato eliminato con un colpo di pistola in faccia. A Raqqa, fondata dal re Seleuco II Callinico e poi forte romano con il nome di Nicephorium sotto Settimio Severo, prima della guerra abitavano 200 mila persone. E ora? Hussam si concede una piccola pausa di riflessione: “E’ una città priva di vita. L’Isis mette in atto esecuzioni e rapimenti. Il fumo e i blue jeans sono proibiti. Le scuole, i caffè e i luoghi di divertimento sono sprangati”.

Tutto proibito?

“Ci si può solo unire a loro, agli uomini del cosiddetto Califfato. Non ci sono lavori all’infuori di quelli che offrono per salari che di solito sono pagati in dollari e che si accompagnano a vari benefici”.

Come sopravvivono i civili?

“Gli impiegati pubblici, quelli che lavorano negli ospedali, nelle scuole, ma anche gli avvocati, non vengono pagati”.

Come campano?

“Qualcuno aveva risparmi accumulati prima. Altri hanno messo su piccoli negozi, panetterie, rivendite di acqua, oppure affittano le loro case”.

Non tutti sono contrari all’Isis. Ho letto di persone che si facevano i selfie con i telefonini davanti ai corpi di soldati del regime decapitati.

“In passato qualcuno ha addirittura giocato a pallone con una testa mozzata. Prima di ogni esecuzione di solito la gente viene invitata ad assistere. All’inizio succedeva nel centro della città ogni venerdì. Ora non permettono più di scattare le foto con i cellulari”.

Ci sono meno uccisioni?

“No ci sono ancora, ma molte non avvengono più non in pubblico”.

I bambini vengono educati a diventare combattenti?

“Ne reclutano molti. Gli danno un po’ di soldi per comprarsi dolcetti all’inizio. Li portano a una sorta di campo militare. Li addestrano a tutto, insegnano la legge coranica, il combattimento e anche come usare un coltello.   Alla fine c’è un esame, la cosiddetta graduation. I bimbi diventano una specie di bomba a orologeria”.

Che età hanno?

“Dipende, in genere fra dieci e quindici anni. Ma possono essere anche più piccoli”.

Imparano anche a fare i kamikaze?

“Sì, ma solo alla fine, addestrarli a immolarsi non è per nulla facile. Prima plasmano il loro cervello”.

I bombardamenti dei russi hanno provocato molte vittime civili a Raqqa?

“Solo nell’ultimo mese circa ottanta persone”.

Hussam e Abdelaziz erano due studenti universitari con passioni e vita banali. Calcio e serate con gli amici. Hanno partecipato alla primavera delle manifestazioni contro Assad. Se ne sono andati nei primi mesi del 2014. “Raqqa è massacrata in silenzio” per il Califfo è un pugno in faccia. Prima si è dileguato Abdelaziz. Una settimana dopo è sparito Hussam: “Hanno ucciso Ibrahim, uno dei miei migliori amici. Anche lui aveva un ruolo di controinformazione nel nostro gruppo. Poi hanno individuato Mahmud che è riuscito ad eclissarsi. Hanno arrestato e ucciso suo padre e il fratello perché non hanno voluto tradirci. Sono stati giustiziati anche nostri amici che non facevano parte della rete di Rbss. Ogni giorno ci svegliamo pensando che potrebbe essere l’ultimo. Ma le nostre vite non valgono più di quelle di chi è già caduto”.