Primero Dios. Rivera y Damas: “I poveri, ricchezza che salva l’Europa” (4)
Nella basilica fiorentina di Santa Croce risuonò la testimonianza del successore di mons. Romero, Arturo Rivera y Damas (1923-1994) venti giorni prima che morisse, il 26 novembre 1994, a San Salvador. "Chi vi parla è il successore di Monsignor Romero, una grossa eredità: la gente era abituata che lui fosse voce di quelli che non hanno voce". Il 5 novembre era a Firenze, invitato a un convegno degli obiettori della Caritas: "Considero l'obiezione di coscienza legittima e lecita - E' un diritto che purtroppo non tutti i governi riconoscono ma che bisognerà lavorare per farlo riconoscere".
Monsignor Romero ritornava sempre nelle sue parole: non era facile gestirne degnamente l'eredità e farla crescere. Ma Rivera y Damas ci era riuscito, tenendo alte come 'Monsenor' le ragioni del Vangelo e percorrendo la strada della riconciliazione con la forza disarmata del dialogo. Cercare ciò che unisce rispetto a ciò che divide era per questo salesiano un imperativo evangelico, al quale non sottrarsi mai, anche quando le lacerazioni, nove anni dopo l'omicidio di Romero ordito dal partito Arena ed eseguito mentre l'arcivescovo celebrava la liturgia, si erano acuite con l'uccisione dei sei gesuiti a San Salvador nel 1989.
Nato nel villaggio di San Esteban Catarina, Rivera y Damas fu nominato arcivescovo della capitale salvadoregna da Giovanni Paolo II nel febbraio '83 succedendo a monsignor Oscar Arnulfo Romero.
"In Salvador - disse in un altra occasione - sono tante e profonde le radici di violenza e di odio e segnano drammaticamente la vita di migliaia di poveri. Sono radici che producono frutti di morte, frutti che non risparmiano nessuno. La morte dei padri gesuiti lo sta a dimostrare... I commercianti di armi, con le loro trame di guerra, possono ancora lucrare tanto da queste situazioni".
In un contesto tanto inasprito dall'odio, Rivera portò avanti la missione di Romero ("la gente era abituata a che lui fosse voce di quelli che non hanno voce") nella consapevolezza che "il cammino della chiesa è l'uomo", parole di Giovanni Paolo II che amava ripetere: "Abbiamo cercato di difendere l'uomo -spiegò al convegno degli obiettori Caritas - specialmente il più debole, il povero che da noi rappresenta la maggioranza".
Il Vangelo, l'amore per la Chiesa, i poveri, parlare al cuore di tutti, poveri e ricchi. Il governo ecclesiale di Rivera si è mosso sostanzialmente in tre direzioni: sostegno alle persone colpite dal conflitto (orfani, vedove, sfollati) tra il regime militare e i guerriglieri, favorire il dialogo, adoperarsi per la riconciliazione e la ricostruzione senza dimenticare i fatti accaduti (creazione della Commissione della verità). Se si giunse alla firma dell'accordo per la fine del confronto armato il 31 dicembre '91, ciò si deve al paziente lavoro della Chiesa salvadoregna: "Nel 1980 - raccontava Rivera - erano arrabbiati tanto i guerrieri come i militari perché loro consideravano che il vincere la guerra fosse cosa di poco tempo. E invece si è prolungata per dodici anni".
Rivera y Damas era pienamente consapevole che la vicenda salvadoregna era ancorata alla storia del continente americano. Svolse a riguardo riflessioni preziose. La sua tesi, esposta nel '92 a Bruxelles all'incontro interreligioso della Comunità di Sant'Egidio, era che dalle ombre proiettate in America dalla cristianità e dalla 'reconquista' ispanica, «lo Spirito ha fatto uscire la luce, come dalla pietra focaia nasce il fuoco». La sua analisi risaliva alla cultura precolombiana: in essa erano già stati sparsi 'semi del Verbo' che, prima dell'arrivo dei missionari cristiani, avevano originato un profondo sentimento religioso. «I primi missionari - spiegava Rivera y Damas - giunsero imbevuti dello stesso Spirito che i semi del Verbo avevano sparso nei cuori degli indigeni, e per questo non ebbero alcuna difficoltà ad entrare in dialogo con essi».
La tragica esperienza della 'Reconquista' spagnola, impedì la piena comprensione della religiosità dei popoli precolombiani. La chiesa non avallò i conquistadores: nel 1537 Paolo III difese gli indios con la bolla 'Sublimis Deus' del 2 giugno e si mosse per frenare le ingiustizie che si commettevano nei loro riguardi. «Bartolomé de las Casas - sottolineava Rivera - Montesinos, Vasco de Quiroga, per citare alcuni nomi, ma anche i concili del Messico e del Perù, delinearono il vero volto della Chiesa evangelizzatrice che, come Gesù Cristo, fece un'opzione preferenziale per i poveri».
«Interessi meschini e vendette personali avvolti sotto il mantello patriottico delle bandiere nazionalistiche» fecero del continente sud americano, nel secolo XIX, un teatro di inutili guerre, una specie di vaso di Pandora che si ruppe facendo giungere i suoi mali al secolo XX, segnato dalla «concentrazione di ricchezze nelle mani di pochi, la trascuratezza totale delle masse poplari, l'ideologizzazione della realtà e la politicizzazione di essa, il militarismo, la corruzione, l'estemporaneità, l'opportunismo».
Dopo la prima guerra mondiale si ruppe il vincolo che legava l'America ispanica all'Europa. La 'Dottrina Monroe' obbligò il Sud America ad avere rapporti esclusivamente con gli Usa che avevano proclamato la 'dottrina Monroe': l'America agli americani. «Attualmente la Chiesa cattolica in America Latina, più missionaria di quanto lo sia stata nei cinque secoli precedenti, cammina con gli uomini della sua terra che cercano di mettere in moto un'economia di solidarietà... Mentre al livello dell'economia politica i nostri paesi offrono all'Europa mercati nuovo e del futuro, la Chiesa, impegnata nell'economia della salvezza, offre alle generazioni europee la ricchezza che salva: ossia i poveri. Al servizio di essi le generazioni attuali dell'Europa sperimenteranno anche che dalle ombre del loro materialismo e della loro secolarizzazione, lo Spirito accenderà luci per il mondo nuovo che vogliamo costruire nella pace, nella giustizia, nell'amore e nella libertà». Si sente una profonda parentela spirituale con il futuro Papa Francesco. (4)