“Soft power”: dalla non ingerenza alla non violenza attiva
Lo Yemen dimenticato, i Rohingya, le attese dei bambini che aspettano qualcuno che li abbracci e li sottragga ai veleni di tanto odio (diretto e social), i barconi pieni di speranza come zattere che tanti vorrebbero non vedere. Come rispondere? Il modo individuale di vivere procede per sottrazione e accumulo e le reti che uniscono si indeboliscono. Ma c'è chi lavora in modo tenace e non si lascia intimidire, senza scegliere la polemica, l'aggressività, poggiando piuttosto su quella che Olivier Roy ha chiamato a Bologna, nel congresso internazionale 'Ponti di pace' promosso dalla Comunità di Sant'Egidio, “solidità culturale” e l'ambasciatrice Callista Gingrich “soft power”: un potere leggero, fatto di testimonianza e per questo incisivo, che segna il passaggio dalla “non ingerenza” alla non violenza attiva che si declina positivamente, ad esempio – come è stato detto (e fatto) – cercando vie legali per i migranti ma anche concretizzando progetti per dare speranza ai giovani in Africa o per offrire un'alternativa ai centroamericani irretiti dai narcos. “Soft power” potremmo tradurlo anche in “forza debole”.
Davanti alla basilica di San Petronio il vescovo cattolico cinese Mons. Joseph Shen Bin, durante la cerimonia finale di 'Ponti di pace', martedì 16 ottobre, ha offerto una riflessione che esprime la "forza debole"; riflessione storica per molti motivi: “Oggi le persone di tutti i paesi del mondo sono in teoria d'accordo con il principio di non violenza ma i problemi rimangono... Guardo a questa occasione come a un invito alla Chiesa in Cina a percorrere con maggiore determinazione il cammino della riconciliazione e della pace, e un invito anche a svolgere un ruolo più attivo per la causa della pace nel mondo”. L'invito – inedito – a che “un giorno veniate tutti in Cina, un paese caloroso e accogliente” è suffragato da un punto di consapevolezza decisivo.
Merita, a riguardo, riportare interamente le parole di Shen Bin: “Il 22 settembre, grazie ai grandi sforzi di dialogo delle due parti, la Cina e la Santa Sede hanno firmato un accordo sulla nomina dei vescovi per integrare pienamente la Chiesa cinese nella Chiesa universale: questo è stato il desiderio di molti papi ed è anche il nostro desiderio. Attraverso il dialogo è stato costruito un ponte di pace che ha abbattuto un muro durato quasi settanta anni. Grazie a questo ponte, per la prima volta quest'anno abbiamo due vescovi cinesi che partecipano al Sinodo. Per la prima volta in settanta anni, l’universalità della Chiesa si è arricchita della loro presenza”. E' caduto un muro, si è sollevato invece un ponte e questo dà sollievo, prospettiva, respiro, in una parola fiducia (grande antidoto alla paura).
Il vescovo di Haimen parlava anche per gli altri due vescovi cinesi venuti a Bologna, mons. Yang Yongqiang, mons. Dang Mingyan, e per padre Zhang Qiulin: la parola pace “in lingua cinese contiene l’idea di riconciliazione e di negoziazione per risolvere le differenze e i conflitti tra persone, tra gruppi, tra etnie, tra paesi. Tutti sanno che Papa Francesco ha affermato nel suo recente messaggio alla Chiesa cinese che solo attraverso la pratica del dialogo possiamo conoscerci, rispettarci e camminare l'uno con l'altro per costruire un futuro comune più armonioso”.
Questo futuro è letteralmente un cantiere aperto per la Terra, per la cura del pianeta, degli spazi piccoli e grandi in cui ciascuno vive. Per il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, si tratta di lavorare “per il bene della nostra Terra, per proteggere l'ambiente in cui tutti viviamo: solo così la famiglia umana potrà avere un futuro”. Abbiamo costruito finora “un'unità economica, del commercio, dei trasporti. Ci muoviamo da una parte all'altra del mondo con grande libertà, ma ci vogliono dei valori per essere uniti, ci vuole un'unità spirituale”. Tanti sono i ponti che “abbiamo percorso e che abbiamo costruito e tra questi vorrei segnalarne quello verso nostra madre terra, verso il creato”. Nell'appello di tutti i leader religiosi, oltre trecento, si osserva peraltro come “il nostro è un tempo di grandi opportunità, ma anche di perdita di troppi ponti infranti e di nuovi muri. E’ un tempo di perdita di memoria e di spreco di aria, acqua, terra, risorse umane; questo spreco scarica sulle future generazioni pesi e conti insopportabili”. Ma allora, osserva Impagliazzo, “in questo mondo dove troppi ponti sono crollati o sono stati distrutti e dove poco s'investe nel costruirli”, si deve ripartire dal dialogo, chiave della sopravvivenza della terra, “perché si crede troppo che la guerra sia il sistema chirurgico pulito per eliminare il male dal mondo”. “C'è una povertà di spirito che ci tiene separati gli uni dagli altri”, dice in piazza Maggiore Bernice King facendo eco al padre (“siamo vicini gli uni agli altri, ma separati nel cuore”).
L'arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, sottolinea come ci sia chi pensa “di trarre convenienze seminando pregiudizi e parole di condanna e inimicizia” mentre tutti in tutte le età dovrebbero costruire ponti “e garantire la loro manutenzione”. E' una possibilità offerta al vivere quotidiano, una luce che può arrivare “a dare speranza nei luoghi bui dove si consumano i tanti pezzi della guerra mondiale”. L'uomo non è condannato a farsi del male e a farlo agli altri. Può sognare, può costruire ponti e percorrerli. “We have a dream”. Il prossimo anno i "ponti" raggiungeranno Madrid.