Libano, confine sud

MEDAL PARADE 2

Una piccola medaglia appuntata sul petto che pesa ma non fa chinare il capo. Sguardo alto e fiero, ad incrociare, magari per la prima volta, quello di chi è “troppo lontano, troppo in alto, troppo…”.

Missione. Letteralmente “incarico ad esercitare un ufficio, o ad adempiere un compito la cui importanza risulti sottolineata dal suggello dell’ufficialità o del segreto”. Nello specifico, per noi soldati, è “l’intervento militare volto a preservare o a riportare la pace in un Paese dove sono in atto conflitti come una guerra civile o uno scontro etnico”. Formalmente, è tutto qua.

Ma l’impatto che una missione ha sulla vita privata di ognuno di noi, dice che la missione è molto, molto di più. Inizia tutto con l’attesa. Un’ attesa carica di aspettative creata dai racconti di chi questa esperienza l’ha già vissuta. Un’attesa fatta di dubbi e domande, di speranze e preoccupazioni per come sarà per noi e per come sarà per chi resta. “un attesa che genererà attesa”. Quasi manca il fiato al pensiero che per sei mesi sconvolgeremo la nostra vita e quella delle persone che fanno parte della nostra quotidianità. Le emozioni si inseguono e si mescolano.

La prima missione. E’ un traguardo e al contempo un punto di partenza. E’ sentirsi dire “hai lavorato bene, sei pronto”. E’ l’occasione di mettere in pratica gli insegnamenti appresi durante l’addestramento. E’ mettere alla prova se stessi, consapevoli che alla sera non si va a casa. “Missione” è condivisione di tempi, spazi che nella vita di tutti i giorni sono strettamente personali. E’ scoprire se stessi, smussare spigoli caratteriali, entrare in contatto con le proprie debolezze e i propri punti di forza. E’ guardare il cielo e accorgersi di non averlo mai visto così. Persino l’aria ha un odore diverso. Cambiano le prospettive e il tempo ha una logica tutta sua. In missione si è soli, eppure soli non si è mai. Perché davvero si è tutti sulla stessa barca, tutti con il bisogno di confrontarsi, di crearsi punti di riferimento, di avere la certezza di potersi fidare di qualcuno. Tutti con le famiglie lontane, tutti a “perderci quell’avvenimento importante che mai avremmo pensato di perdere”. Eppure succede. Perché la missione è soddisfazione, ma è anche sacrificio, rinuncia e adattamento. E ancora di più è orgoglio. Di rappresentare in una terra straniera il nostro Paese, la nostra Italia; e quando da questo scaturisce il plauso di chi ci guarda e beneficia dei nostri sforzi, ecco che tutto è ripagato. E non pesa neanche schierarsi per celebrare momenti previsti dal protocollo, perché quella piccola medaglia appuntata sul petto sembra dire “parte di tutto questo è anche merito tuo”. Pesa come pesano sei mesi di vita. Pesa ma non fa chinare il capo. Sguardo alto e fiero ad incrociare, magari per la prima volta quello di chi, in realtà, non è mai stato “troppo lontano, troppo in alto, troppo…”.

Una stretta di mano salda e umana. Lo sprint finale. Un sorriso. Un pensiero. “E’ quasi casa”, e quasi dispiace.

 

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