Ma il Pd è una comunità o una “comune”?
Neppure l’arrivo di Matteo Renzi che è stato capace di portare il partito al 40,8% delle elezioni europee dello scorso maggio, è riuscito a togliere al Pd (o a una parte di esso) l’insopprimibile spinta al suicidio sentenziata tempo fa da Romano Prodi. Basta osservare cosa sta succedendo in queste ore a proposito del dibattito sull’art.18 dello statuto dei lavoratori, basta ascoltare certe bordate contro Renzi sparate da tronfi leader della minoranza interna come Rosy Bindi. Basta assistere a certi interventi di Stefano Fassina, che è sempre quel “Fassina chi?” evocato qualche mese fa dal segretario del partito nonché presidente del consiglio. Basta leggere gli emendamenti che quelli della minoranza intendono apportare al nuovo progetto sul lavoro di Renzi per stravolgerlo completamente.
Ma, cosa ancora più edificante, basta leggere un piccolissimo passaggio di un’intervista che Gianni Cuperlo, altro eminente rappresentante della minoranza Pd, ha rilasciato ieri al Corriere della Sera.
Nella lunga e fumosa chiacchierata con l’intervistatore, Cuperlo, a proposito di ciò che sta succedendo all’interno del partito tra Renzi e la minoranza, dice tra l’altro: “Non vale la logica del prendere o lasciare. Chi vince il congresso ha il diritto e il dovere di dirigere un partito, non di comandare”. E ancora: ”Un partito non è una ditta né una caserma. E’ una comunità”.
Ecco bastano questi pochi concetti per capire che aria tira all’interno del Pd, un partito che sembra trovare la propria realizzazione solo nelle sconfitte. Se perde sta bene e si rilassa, sennò sono isterie come quelle che ora deve combattere Renzi, che mai forse si sarebbe aspettato di trovare i più acerrimi oppositori proprio all’interno del suo partito.
Cuperlo, e questo è davvero allarmante, dice in sostanza che un rappresentante del Pd può certo vincere alla grandissima le primarie, può fare sfinenti campagne elettorali, può vincere le elezioni portando il partito a vette impensabili, può avere il favore di milioni di italiani, ma poi non può comandare, perché il partito non è una caserma.
Ditemi voi se questo non è un delirio. Uno, secondo Cuperlo, deve rischiare, combattere, mettere nella sfida le proprie idee e la propria faccia e poi dovrebbe fare ciò che dicono gli altri, quelli che ha battuto alle primarie, quelli che negli ultimi anni non sono riusciti mai a portare il partito oltre ad un tragico 25% di elettori.
Forse sbaglierò, ma io penso che in democrazia chi ha la maggioranza, chi vince abbia non solo il diritto ma addirittura il dovere di comandare, di prendere decisioni nette dopo aver ascoltato il parere di tutti. Ma ascoltare proposte e confrontarsi con posizioni diverse non deve significare dover accogliere tutto. Mi pare che funzioni dappertutto così. Dalle riunioni di condominio ai consigli di amministrazione di qualsiasi azienda, dalla dirigenza di una casa del popolo a quella di una squadra di calcio.
Ma evidentemente queste sono considerazioni che a Cuperlo non interessano. Chi vince, secondo lui, deve assumere su di sé le scelte di chi ha perso. Ora ci si spiega perché il Pd non ha mai funzionato.
Cuperlo dice anche che il Pd non è una caserma, è una comunità. Secondo me si è sbagliato forse, invece che comunità, intendeva dire una “comune”, quelle forme di organizzazione sociale basate su libero amore e nessuna regola tanto care alle sinistre degli anni Settanta. Una “comune”, quella del Pd, senza amore e senza regole, dove può disturbare molto chi tenta di mettere un po’ d’ordine e soprattutto di prendere decisioni senza sfinenti concertazioni o catastrofici compromessi. Renzi ha il diritto di comandare. Se poi sbaglia, pagherà.