Cinquant’anni dall’alluvione: celebriamo anche la forza e il coraggio dei fiorentini
Così, a distanza di cinquant’anni sono ancora qui. Con la mente rivolta a quell’infernale venerdì 4 novembre 1966 quando l’Arno ruppe gli argini, con la mente rivolta a tutti quei poveretti terremotati che in pochi minuti hanno perso tutte le loro cose, a cominciare dalla casa. Solo chi ci è passato può capire a fondo il dramma di questa gente rimasta senza nulla.
E io l’ho provato cinquant’anni fa quando l’Arno, dopo giorni e giorni di pioggia incessante, esondò prima a Rovezzano e poi davanti alla Biblioteca Nazionale e invase Firenze con la sua acqua. Acqua? No. Un misto di fanghiglia, nafta, benzina, cherosene, e tutto il putridume che un fiume può portare verso il mare.
Casa mia, la casa della famiglia, un villino interno del Viale Gramsci che non si vede dalla strada, un villino ad un piano solo, andò a finire sotto quasi quattro metri di liquami. Tutto distrutto in pochi minuti.
A distanza di cinquant’anni col pensiero, sono ancora qui, davanti ad un cancello in ferro battuto, quasi di fronte alla statua di Mazzini che allora non c’era.
Con l’acqua alle ginocchia, accanto a mia sorella con un nipotino di tre anni in braccio, guardo nella bruma di quella mattina se qualcuno ci può dare una mano. Perché in quella casa in mezzo ai giardini un po’ ribassata rispetto al livello stradale, dove fino alle nove di mattina non era arrivato nessun tipo di allarme, c’erano ancora mio padre infermo, mia madre, un fratello, reduce da un incidente, ingessato dal busto fino alle gambe.
Era la giornata delle Forze Armate e per fortuna in città, per una festa che non si sarebbe mai svolta, c’erano un sacco di soldati. In quella nebbiolina, dall’altra parte della strada, ne scorgemmo alcuni che avevano a disposizione anche un camion. Furono loro a soccorrere la mia famiglia e salvarla da una tragedia che sembrava quasi inevitabile.
Accompagnai a casa quei soldati (che grazie a internet vorrei ora ritrovare e ringraziare) ed assistei alle operazioni di salvataggio. Uscì per ultimo da quella casa, dove dalle pareti cominciavano ad uscire grandi fiotti di acqua. Attraversai il giardino davanti, con l’acqua che mi arrivava al petto, tenuto per mano da uno di quei soldati che mai più avrei dimenticato. Salii sul camion e mi lasciai alle spalle tutto: la casa che avrebbe riportato danni ingentissimi, libri, dischi, abiti, fotografie, ricordi, un pezzo di vita. Tutto questo in pochi minuti. Eravamo “alluvionati” senza più niente, così come oggi ci sono migliaia e migliaia di “terremotati”, ugualmente senza più niente.
In anni e anni ho avuto modo più volte di raccontare questa vicenda personale. Ma ogni volta che sento il bisogno di rievocare quest’emozione che è radicata dentro di me e che mi accompagna da mezzo secolo, mi affiorano alla mente altre considerazioni.
Ho letto sul Quotidiano Nazionale il bell’articolo della collega Chiara Di Clemente in cui, per tanti motivi, definisce “interrotta” la generazione di tutti i bambini nati, come lei, nel 1966. Ma, secondo me, sono generazioni “interrotte” anche quelle di tutti i fiorentini che si sono ritrovati, giovani, meno giovani, ragazzini, adulti, anziani nella condizione di essere “alluvionati”.
Il 1966, a ben vedere. È proprio nel bel mezzo dei favolosi anni Sessanta. Quando tutto sembrava bello e possibile. Gli anni del boom economico, gli anni della voglia di fare, di agire, di uscire definitivamente dai drammi del dopoguerra, a Roma erano gli anni della dolce vita.
Il 4 novembre del 1966 per molti fiorentini fu la fine di questo sogno. Da un giorno all’altro furono richiamati alla realtà. E non solo i fiorentini. Perché tutta l’Italia e gran parte del mondo vennero scosse dal fatto che una città come Firenze, culla del Rinascimento, custode di patrimoni artistici beni dell’umanità, centro mondiale della cultura, potesse andare a finire sotto metri e metri d’acqua. Potesse essere devastata, sfregiata, resa irriconoscibile. Senza un perché, senza una causa mai accertata in via definitiva.
L’alluvione di Firenze, che ha seminato morte e distruzione, ha insegnato a milioni di persone la fragilità dell’essere, la fragilità dell’uomo. Ma il dopo alluvione ha contribuito a far conoscere a tanti giovani, come potevo essere io, tante cose. Negative e positive. La perfidia dell’ umanità, con quegli sciacalli che, una volta che l’Arno si era ritirato, andavano nelle case a rovistare e a rubare. O la vergogna di quei commercianti che vendevano una bottiglia d’acqua minerale a 500 lire, quando il giorno prima magari ne costava 50, o gli stivali di gomma a prezzi esorbitanti.
Ma fra le cose che uno non dimenticherà mai, il dopo alluvione ha insegnato che con l’unità di tutti, la forza, la partecipazione, l’impegno, il lavoro, il sacrificio, il coraggio, la fiducia nel futuro, gli slanci di generosità si possono superare tutti gli ostacoli, tutte le difficoltà e si può rinascere.
E allora colgo l’occasione per dire una cosa che mi sono sempre tenuta per me: vedo in giro tutti gli eventi per celebrare quest’anniversario per tanta gente drammatico. E vedo che dappertutto si parla, a ragione, degli “angeli del fango”, quei ragazzi che accorsero da ogni parte d’Italia, d’Europa e perfino dall’America, per salvare libri e opere d’arte finiti sotto il fango. Un grazie a loro doveroso, sentito, un aiuto fondamentale. Ma mi piacerebbe venissero celebrati nella stessa maniera tutti quei soldati, tutti quei poliziotti, carabinieri, vigili del fuoco, che aiutarono tanta gente disperata, che salvarono tante vite.
E vorrei soprattutto che una volta tanto venisse celebrata con tutti gli onori la grandezza dei fiorentini tutti, guelfi e ghibellini senza più distinzioni, tutti uniti nel nome di Firenze, che lavorando per giorni e giorni fino alla sfinimento, spalando il fango, portandolo via secchio dopo secchio, ripristinando tutti quei servizi che c’era da ripristinare, dando una mano dove c’era da dare una mano, fecero sì che la città nel giro di pochi mesi potesse ripresentarsi al mondo intero se non bella come prima almeno dignitosa. Tanto da poter ospitare, il 24 dicembre, Papa Paolo VI a celebrare la messa di mezzanotte in Duomo.