Tre settimane e non è cambiato nulla. O meglio: è cambiato tutto il mondo ma non quello in green del Pga Tour.
Morale: abbiamo ricominciato esattamente laddove avevamo lasciato, con Giordanello Spiethato Spieth a dominare dopo 21 giorni di vacanza meritata e tutti gli altri a inseguire, come fossero delle jeep nella sabbia con le ruote che girano a vuoto.
Meno trenta lo score dell’americano a Kapalua (il solo insieme a Ernie Els ad aver mai raggiunto un punteggio così basso), meno 22 quello del secondo classificato, Patrick Reed.
Che dire? Un dominio, punto.
Ma siccome il caso entra dappertutto ma niente esce solo per caso, mi vien da pensare che il gioco del biondo texano sia lo specchio perfetto di questi tempi malati e malandati. Un golf, il suo, che pare nato da una spending review dello swing, con una tecnica basica, senza sprechi, poco appariscente, priva di lustrini e soprattutto della frizzantezza del gioco di Rory o di Tiger. Ma è al contempo un golf solidissimo, il suo, dotato di un cinismo salva-score senza pari.
Insomma: la forza di Giordanello sta soprattutto nella sua capacità in campo di assecondare il flusso dei colpi, restando sempre in una sorta di bolla perfetta che, se lo spinge a cancellare ogni riflessione critica, al contempo lo porta a elaborare sempre soluzioni alternative. Tradotto: se lo Spiethato dovesse mai cadere da uno strapiombo, si farebbe crescere le ali mentre precipita a terra. E così, se sbaglia un colpo, va avanti a testa bassa e subito trova la chiave (un approccio vellutato, un putt balisticamente perfetto) per lucchettare il punteggio fino alla buca successiva.
Semplice. Ma siccome la semplicità è sempre l’ultimo livello della sofisticatezza, prepariamoci dunque a un dominio del texano, il quale, se non ci procura orgasmi golfistici come quelli a cui negli anni passati ci ha abituato Tiger, ci regala comunque uno spettacolo in cui la vera eleganza è sempre nella testa di chi lo gioca e di chi lo apprezza.