Sono fermamente convita che il successo –e non solo nel golf- sia di coloro i quali imparano meglio a sfruttare le proprie disposizioni naturali e a controbilanciarne i limiti. I quali limiti, per altro, possono sempre tradursi in un vantaggio e non in una diminuzione delle possibilità: l’importante è non andare mai contro il proprio DNA. Ne consegue che per essere vincenti è fondamentale conoscersi alla perfezione.

In questo senso la storia degli ultimi mesi di Luke Donald può essere un esempio luminoso per tutti quelli –soprattutto i giovani- che si dannano giornalmente in campo pratica alla ricerca della versione tecnicamente ottimale di se stessi.

Veniamo dunque alla cronaca recente: l’ex numero 1 del mondo, senza vittorie dal 2013, dopo 36 buche è in terza posizione al Sony Open delle Hawaii a quota meno 10. Ma non è tanto lo score a impressionare gli addetti ai lavori, quanto la purezza del gioco che l’inglesino ha messo in mostra in campo.

Dopo un 2014 nel quale era arrivato a un millimetro dalla decisione di smettere con il golf, il Luca sembra aver ritrovato ciò che aveva perso lungo la strada verso la perfezione: i suoi punti di forza.
Ferri al green, perfetto controllo della distanza dalle 150 yard, gioco corto vellutato e putt calibrati alla perfezione: dopo tanti mesi di gioco buono solo per i saldi di fine stagione, il “pacchetto Donald” è di nuovo sul mercato pronto per essere sfruttato al meglio.

Che cosa è successo è presto detto: Luke ha ascoltato il suo corpo e si è reso finalmente conto che quei cambiamenti tecnici che ha provato ad assemblare tra il 2014 e il 2015 (meno azione dei polsi, più lavoro dei grandi muscoli e maggiore rotazione nello swing), il suo fisico non era in grado di assecondarli. Si è insomma accorto in tempo che non poteva andare contro 30 lunghi ed intensi anni di DNA golfistico.

Presa coscienza dei suoi limiti, il Luca è tornato alla chetichella dal suo coach di sempre, quel Pat Gross che lo allena dal lontano 1990 e che però aveva silurato nel 2013 per affidarsi alle cure di Cook.

L’origine di quel nefasto desiderio improvviso di cambiamento? La vittoria nello Us Open del 2013 del connazionale Giustino Rose, avvenuta proprio sotto i suoi occhi desiderosi di alzare la coppa al cielo di Merion.

Affidatosi dunque a Cook a fine 2013 per cambiare lo swing e magari per conquistare qualche metro in più, Donald ha però perso di vista i suoi punti di forza (il gioco dalle 150 yard in giù) per concentrarsi piuttosto sulle sue debolezze. Così facendo ha intasato così tanto la sua testa di dubbi e di punti di domanda, da arrivare quasi al punto di desiderare di voler smettere.

Fortunatamente si è ritrovato proprio quando si è perso e ha riscoperto il vero valore del suo swing proprio quando ormai stava diventando un lontano ricordo: ha insomma recuperato la gioia del presente e la fiducia nel futuro, andandole a pescare nel passato. Ma per farlo, ha dovuto innanzi tutto ammettere i propri limiti e assecondare la propria natura.

La morale? Il progresso esiste, sempre, ma non sempre conduce al meglio. Soprattutto se ti porta a tradire il tuo DNA.
Capito ragazzi?