Quando sentite qualcuno che giura fiducia nella Giustizia italiana, non ci sono dubbi: o ha vissuto molto all’estero, e oppure dice una bugia. Parliamo della Giustizia, ovviamente, non dei giudici che in genere amano il proprio lavoro, che lo fanno con abnegazione, che sono normali esseri umani: qualcuno all’altezza e altri meno. Non parliamo dei giudici, anche se qualcuno, soprattutto nella magistratura inquirente, sembra aver dedicato più tempo alla matematica che al diritto, visto l’impegno profuso nella costruzione di teoremi più che nella raccolta di prove concrete.

Non parliamo delle toghe, insomma, per le quali è giusto esprimere rispetto e solidarietà, anche senza seguire il presidente della corte d’Appello di Milano, Canzio, quando attacca il ritornello di una «infamante gogna mediatica» a cui «i giudici hanno risposto con l’imparzialità». No, in questo caso parliamo di amministrazione della Giustizia, quella che impiega anni per risolvere un contenzioso civile o condannare un delinquente, che tiene in galera gli imputati e fa uscire i condannati.
 

Quella che riempie le carceri, fino a rendere necessari periodici provvedimenti di clemenza che mettono fuori dalla porta molti di quelli che sono entrati in casa nostra dalla finestra. Quella delle norme puntigliose e severe per i ladri di polli, ma assenti per i killer della strada. Quella che continua a non porre rimedio alla cronica carenza di personale, condizione sufficiente ad allungare ancora la durata delle cause penali, in una situazioone di «continua emergenza», come l’ha definita il presidente del tribunale di Firenze, Enrico Ognibene. Si dirà: bisogna risparmiare. certo. Ma i paesi civili risparmiano sugli sprechi, e noi ne abbiamo di enormi, non sul fondamento del vivere civile, cioè l’amministrazione rapida e corretta della giustizia.

Che oggi vive la crisi sua e quella della società, con l’aumento dei reati contro il patrimonio, con il boom di uno dei delitti più odiosi: l’usura. Insomma: dall’inaugurazione dell’anno giudiziario, è emerso che non siamo certo all’anno zero, ma che il diritto è uscito dalla sua culla, ed è scappato lontano. Chissà dove. Allora, è vero che forse in questo momento ci sono altre urgenze: una legge elettorale che possa dare al Paese governi stabili, un piano del lavoro che accompagni quelli che Draghi chiama «segnali impressionanti di ripresa». Ma il fatto che la malattia della Giustizia sia oramai cronicizzata, non deve farci dimenticare che questa «patologia» non può e non deve essere dimenticata. Neppure se sulla scena si muove ancora Berlusconi, eterno alibi per ogni veto su qualunque riforma del settore, anche la più ragionevole.

 E a Renzi che ha dimostrato di non aver paura di trattare con il «Caimano», è giusto chiedere di avere il coraggio di mettere in agenda anche il nodo Giustizia. Anche se la cosa dovesse metterlo (e lo metterà) nel mirino di una certa magistratura militante, troppo abituata a dettare i ritmi della politica, per lasciare che lo faccia un politico. Una sfida a cui il sindaco di Firenze non può sottrarsi. Perché la vecchia Italia, ogni tanto è costretta a svuotare le carceri. Ma quella nuova deve porsi l’obiettivo di aiutare i giudici a svuotare i tribunali.

 

Gabriele Canè