Oggettivamente contorto, assolutamente inedito, sfacciatamente ambiguo. Persino al Quirinale circola una malcelata perplessità: «Dice che si sta muovendo in armonia col presidente della Repubblica, eppure non è affatto chiaro in che direzione intenda andare…». Quel che appare, è che Mario Monti abbia voluto dire a tutti, e in modo particolare ai suoi spesso ingombranti sostenitori, che è disposto a candidarsi, ma alle sue condizioni. Negherà dunque l’utilizzo del suo nome nei simboli elettorali, ma concederà d’essere indicato come il «capo» della nascente coalizione centrista. Proprio quel che Napolitano avrebbe voluto evitare. Due le condizioni poste esplicitamente al proprio impegno diretto: «la forza» e «la credibilità». Se nei prossimi giorni Monti annuncerà di essere disposto a concorrere — sia pure, caso unico nella storia repubblicana, indirettamente — alla premiership, sarà perché i sondaggi gli consentono di prefigurarsi un ruolo politico attivo (la forza) e gli alleati gli avranno lasciato mano libera nella composizione delle liste (la credibilità). Compiere questo passo e dire addio al Quirinale sarà un tutt’uno.
Pur nella sua ‘originalità’, la mossa politica abbozzata ieri da Monti ha uno sbocco oggettivo e pergiunta dichiarato: l’alleanza post elettorale col Pd di Bersani. E’ infatti tutto rivolto a sinistra, il discorso pubblico del premier uscente. Che non a caso teorizza «una svolta progressista». Ma se il Pdl fosse stato il favorito alle elezioni, se Alfano fosse stato un leader credibile e su di lui non gravasse l’ombra di Berlusconi, lo stesso discorso Monti l’avrebbe fatto guardando a destra. Chiaro il suo obiettivo strategico: disarticolare i due maggiori partiti e mettere assieme «i cespugli» riformisti di entrambi i poli creando così una foresta in grado di resistere ai venti della crisi e di varare le riforme necessarie al Paese. La riconquista del Pdl da parte di Berlusconi e la tenuta del Pd sotto la ledership profumata di vittoria di Bersani, lo costringono a sperare di realizzare domani quel che sognava di poter fare già oggi.
Oggi, Monti non può che proporsi a Bersani. Ammette dunque che «senza il Pdl non avremmo potuto salvare l’Italia», ma aggiunge che fortunatamente «l’Italia non deve essere salvata tutti gli anni». Del Pdl di Berlusconi, insomma, si può fare a meno. Conta il merito, infatti, non la forma: non più «destra» e «sinistra» ma «cambiamento» ed «Europa». Come se l’idea di cambiamento e quella di Europa fossero una ed una sola: la sua. C’è un’evidente pulsione élitista, nell’approccio di Monti. E c’é una chiara riserva sulla bontà del processo democratico tradizionale. Ma Monti ritiene di potersele permettere. Agli occhi di Bruxelles, Francoforte, Washington, Città del Vaticano e Londra il suo nome, e solo il suo nome, in Italia viene considerato sinonimo di credibilità politica, capacità riformatrice e coerenza europeista. Tanto basta. I voti di Monti andranno dunque pesati e non contati. E se Bersani faticherà ad affrancarsi dai «conservatori» Vendola e Camusso, il Professore mobiliterà i mercati scatenando il suo miglior alleato: Mr Spread. Non a caso, contraddicendo anche una recentissima valutazione dell’Abi, ieri il premier uscente ci ha tenuto a dire che il calo del differenziale tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi non è stato merito della Bce ma «dall’atteggiamento del governo italiano». Merito suo, dunque. Tutto sta ora a vedere come Bersani intenderà porsi. E’ probabile che, questa mattina, la lettura dei grandi quotidiani finanziari internazionali gli suggerirà di continuare a fare quantomeno buon viso…