Non verseremo lacrime né gonfieremo il petto per le dimissioni «no cost» del ministro degli Esteri Giulio Terzi di Santagata, auspicabilmente destinato a raggiungere il suo mentore politico Gianfranco Fini su una panchina dei giardinetti tra la Farnesina e la Camilluccia. Se è vero, come lui dice, che non ha condiviso la decisione di rispedire in India i due marò, si sarebbe dovuto dimettere allora. Invece ha rilasciato interviste per difendere quella scelta. La decisione è dell’11 marzo; il sequestro, perché di sequestro si è trattato, dei nostri due fucilieri di marina risale a 13 mesi prima: tra le due date, di errore in errore Terzi ha avuto tutto il tempo di dimostrare la propria abilità diplomatica. Infatti, non abbiamo ancora la minima idea di come e quando si concluderà la vicenda. Ci affidiamo al buon cuore degli indiani: che Vishnu il preservatore ci protegga. Se vuole davvero lasciar credere di essersi dimesso per coscienza e non per calcolo, Terzi annunci che non intende saltare sul treno che già mesi fa gli è sfuggito di una candidatura in parlamento. Sarebbe il minimo. Eppure, bisognosi come siamo di bei gesti e di eroi, c’è chi per disperazione si accontenta di un Terzi. Diventato infatti all’istante il mito di qualche politico in crisi di indentità e, comprensibilmente, dei molti militari italiani che avrebbero voluto veder sbattere la porta del governo al ‘loro’ ministro: l’ammiraglio Giampaolo Di Paola. Il quale ha invece seguito logiche analoghe a quelle dell’armatore della Lexie, che pur di non mettere a rischio i propri affari con l’India dopo il fatidico conflitto a fuoco incoraggiò il capitano del mercantile a lasciare le acque internazionali per recarsi nel porto di Kochi dove i due marò sono stati poi arrestati. Sulla decisione di Di Paola hanno pesato invece le ingenti commesse miltari che Nuova Deli minacciava di far saltare: perciò tre settimane fa il ministro della Difesa non ha esitato a mettere due soldati italiani nelle mani di carcerieri stranieri. In tutto ciò, vien da chiedersi che fine abbia fatto Mario Monti. Era in prima fila, e a favore di telecamere, a ricevere i marò al loro ritorno in Patria; è poi scomparso quando la storia s’è bruscamente discostata dal lieto fine. «Non l’hanno informato, è tutta colpa di Terzi», dicevano, in perfetto stile arcitaliano, le veline di palazzo Chigi. Figurarsi. Fossero ancora vivi, Luigi Comencini ed Alberto Sordi ne avrebbero certo fatto un remake di ‘Tutti a casa’. E poi, non era lui, il professor Mario Monti, l’uomo grazie al quale l’Italia si è riguadagnata la stima del mondo? Non era lui l’interlocutore privilegiato di capi di Stato, primi ministri e uomini d’affari d’ogni dove? Perché l’idea di scortare le navi mercantili per proteggerle dai pirati non è italiana, ma delle Nazioni Unite. Eppure, mai come in questa vicenda l’Italia si è trovata isolata dal mondo. Nessun sostegno è infatti venuto dalla Nato, né dall’Europa, né dagli Stati Uniti. Ci siamo ritrovati soli. Soli con le nostre inefficienze, le nostre furbizie, i nostri consueti scaricabarile. Sul corpo di due soldati si sono consumati e si consumano piccoli calcoli tesi a grandi affari e sfolgoranti carriere. Due le lezioni. In quest’eterno ritorno dell’8 settembre, abbiamo imparato che la Patria può morire due volte pur senza essere mai resuscitata. Abbiamo anche imparato che non basta mettere un professore a palazzo Chigi, un diplomatico agli Esteri e un militare alla Difesa, per fare di uno Stato uno Stato rispettato e di una politica una politica efficace. Anzi, è vivamente sconsigliabile.