A leggere le dichiarazioni di ieri, parrebbe che Forza Italia si sia pentita di aver avviato il confronto sulle riforme con Matteo Renzi. Emblematico il caso della cosiddetta «abolizione» delle province: la scorsa settimana, al Senato la fiducia sul disegno di legge Delrio è passata solo grazie alla benevolenza dei berlusconiani, che ieri con Brunetta hanno però detto peste e corna della riforma. I gruppi parlamentari azzurri ribollono, e si moltiplicano le voci contrarie anche alla riforma del Senato. Se Berlusconi fosse realmente in campo il problema non si porrebbe. Ma Berlusconi ha altro a cui pensare. Il 10 aprile si conoscerà il suo destino giudiziario, e sia che finisca agli arresti domiciliari sia che venga affidato in prova ai servizi sociali per lui si paventa una dura botta psicologica e un serio limite alla campagna elettorale per le Europee. Se è vero che, mercoledì, è tornato a sondare il capo dello Stato non tanto sull’eventualità di ottenere la grazia quanto sulla possibilità di spostare a dopo le Europee l’epilogo della sua vicenda giudiziaria, è chiaro che ai suoi occhi la questione sta assumendo i contorni dell’ossessione. Difficile pensare che in questa condizione d’animo l’ex premier possa assumere decisioni definitive sul fronte politico. E infatti così non è: l’accordo regge, nonostante tutto. Del resto, ci si domanda in cosa gioverebbe a Berlusconi un’eventuale rottura. C’è il precedente della Bicamerale D’Alema, certo, ma stavolta è diverso. Berlusconi è un leader in grave difficoltà e perciò alla ricerca di una rilegittimazione e di un ruolo politico. Partecipare al processo riformatore gli assicura entrambi. Sottraendosi, invece, si chiuderebbe in un angolo. Ed è vero che il gruppo del Pd al Senato non è meno agitato di quello del Pdl, ma la «retorica» e la demagogia» (così le ha definite Renzi) dei senatori democratici che ieri hanno presentato un disegno di legge alternativo a quello del governo appare destinata a rientrare. Soprattutto qualora Berlusconi dovesse per assurdo sfilarsi. Se, dunque, la riforma passasse a maggioranza semplice senza i voti di FI, Renzi avrebbe qualcosa di concreto (e concretamente popolare) da esibire agli elettori delle Europee nonché un referendum confermativo da gestire l’anno successivo. Con un probabile, doppio successo. No, a Berlusconi mollare il premier ormai non conviene.