Capita spesso che la politica e i media gonfino di aspettative eventi futuri per poi scoprirli gravidi di novità modeste. C’è il rischio che questo accada anche col mitico semestre di presidenza italiana dell’Ue che inizierà a luglio. Tanto per cominciare, non sarà un semestre: al massimo un bimestre. Da qui ad ottobre, tutti gli sforzi degli stati membri saranno concentrati sulla nomina della nuova Commissione europea. Fino a novembre, quando la Commissione si insedierà, nessuna decisione tecnica potrà pertanto essere presa. E a metà dicembre saremo già in clima natalizio. Si parlerà molto, dunque, ma si deciderà poco. Per Matteo Renzi e il suo decisionismo sarà una prova sofferta: dovrà accettare tempi lunghi, dovrà sottostare a mediazioni continue, dovrà mordersi la lingua come mai ha fatto prima. E’ chiaro sin d’ora che nessuna rivoluzione verrà compiuta. «I trattati non si toccano», dice la Merkel per convinzione e ripete Padoan per realismo. Del resto, riscrivere i trattati significherebbe impegnarsi in un tira e molla dai tempi biblici. Lavorando di sponda con la Francia di Hollande, la presidenza italiana punta a far accettare ai partner le proprie priorità: crescita economica e occupazione. Difficile, anche per l’austera Germania, dissentire. Ma una cosa è enunciare un obiettivo comune, cosa diversa è individuare comuni strumenti per raggiungerlo. Sembra chiaro che ci si dovrà muovere nelle pieghe dei trattati attuali: niente modifiche, dunque, niente deroghe formali. La parola d’ordine sarà perciò «flessibilità», e tutto starà nel vedere che margini di flessibilità ci verranno accordati rispetto ai vincoli che abbiamo in passato sottoscritto. E’ alla condivisione di questo principio, la flessibilità, che Renzi condiziona il sostegno alla nomina a presidente della Commissione europea del lussemburghese Junker. La possibilità di distinguere tra spesa corrente e spesa per investimenti sarebbe già d’aiuto. E, a fronte delle riforme fatte e di quelle annunciate, è realistico immaginare che ci verrà concessa. Il resto è retorica. E’ infatti vero che, come gli ha riconosciuto ieri il presidente uscente dell’eurogruppo Van Rompuy, il risultato delle europee ha fatto di Renzi il leader politico più forte dell’Unione. Ma la Germania resta il Paese più potente.