Le riforme costano, soldi non ce ne sono: Matteo Renzi si appresta dunque a (ri)celebrare nozze sontuose con l’opinione pubblica italiana, ma per gli invitati si paventa un buffet a base di fichi secchi. Al termine del Consiglio dei ministro di venerdì, c’è da attendersi una conferenza stampa pirotecnica. Mai come oggi, infatti, Renzi deve riconquistare la fiducia degli italiani e con ancor più urgenza quella dei mercati finanziari e dei partner europei. La realtà lo costringe pertanto a vendere la pelle di orsi ancora liberi. Il premier ne è consapevole, e perciò ha da tempo trasformato in un possibile elemento di forza un oggettivo elemento di debolezza. Dovendo infatti fronteggiare l’accusa (in verità grottesca) d’essere un autocrate che decide tutto da solo, ed essendo costretto a fare i conti con una maggioranza eterogenea e con una strutturale penuria di risorse, ha scelto la via della «consultazione»: dei provvedimenti più delicati, cioè, il Consiglio dei ministri individua le «linee guida», segue una consultazione con le parti interessate che prima o poi si conclude con una nuova riunione del governo per licenziare le relative norme. Un metodo che complica non poco il lavoro dei giornalisti, che tendono facilmente (e a volte colpevolmente) a smarristi nel labirinto di annunci, richieste, bozze, proposte, norme e relativi decreti attuativi. Accadrà così anche per la riforma della scuola. Venerdì, infatti, non avremo la legge ma solo le sue linee guida. E tra le linee guida non comparirà la distinzione tra scuola statale e servizio pubblico, che pure il premier condivide ma che lo esporrebbe al fuoco di sbarramento di grillini, Sel e minoranza Pd con l’accusa di fare gli interessi della Chiesa. Per la sinistra sarebbe stata una rivoluzione culturale, ma la rivoluzione dovrà attendere. Anche perché per detassare le iscrizioni alle scuole private occorrerebbe far uscire dalla porta soldi destinati a rientrare dalla finestra ma che oggi non ci sono. Ci sarà invece, in Consiglio dei ministri, lo Sblocca Italia annunciato lo scorso primo agosto. Avremo dunque le norme per far ripartire i cantieri, ma non le relative risorse: il ministro Lupi ha già detto che per parte delle coperture bisognerà attendere la legge di stabilità. Se a ciò si aggiungono le incertezze sulla spending review, i tira e molla sulla riforma del lavoro e lo sforzo sovrumano del ministro Orlando per riformare la giustizia accontentando sia Berlusconi sia i magistrati senza mai azzardarsi a dare sostanza al principio della terzietà dei giudici, si capisce che l’accusa di autoritarismo non sta in piedi: Matteo Renzi si rivela infatti non un decisionista, ma un mediatore. Il che andrebbe bene se le vacche italiane fossero grasse e la Germania effettivamente incline a concederci consistenti margini sui conti pubblici. Ma le vacche sono magre, la Markel non deflette e la recente cacciata dal governo francese di un ministro dell’Economia considerato troppo «antitedesco» lascia intedere che Parigi non stia tanto con Roma quanto con Berlino.