Mai come oggi Matteo Renzi deve dimostrare al mondo di non essere un Benito Cereno. Niente a che vedere, dunque, col comandante del mercantile spagnolo immaginato dallo scrittore Herman Melville: formalmente nel pieno dei poteri, di fatto ostaggio di una ciurma ammutinata. Il terreno scelto per la prova di forza è, come è noto, la riforma del lavoro. Terreno scelto non dal presidente del Consiglio italiano, che volentieri avrebbe rimandato il fischio di inizio di una partita chiaramente delicata per il Pd, ma dal governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi. Paradossalmente, l’ombra di Draghi aiuta Renzi. Aleggia infatti da settimane lo spettro del commissariamento dell’Italia. L’idea, cioè, che pur se incarnata dal giovane e dinamico Matteo, la politica italiana sia la stessa di sempre e la capacità di passare dalle parole ai fatti, riformando quel che va riformato, pari a zero. Cominciano a pensarlo sia i poteri più o meno «forti» nazionali sia i partner europei sia gli advisor dei grandi fondi di investimento globali. C’è chi vorrebbe che Draghi diventasse capo dello Stato e chi auspica — alcuni, come il fondatore di ‘Repubblica’ Eugenio Scalfari, dicendolo; altri, come il direttore del ‘Corriere della Sera’ Ferruccio de Bortoli, dicendo il contrario — l’intervento della Troika. Quel che Renzi non riesce a fare lo farebbero i ‘commissari’ della Bce, del Fmi e della Commissione europea. Lavorare affinché Renzi fallisca significa aprire la strada a questa prospettiva. E questa la responsabilità che intendono assumersi i Civati, i Bersani e le Camusso? Difficile crederlo. Facile invece immaginare che, nel Pd, molti degli attuali dissenzienti temano anche il secondo scenario possibile in caso di fallimento renziano: le elezioni anticipate. E la loro ovvia non ricandidatura. Se a questo si aggiunge il fatto che — sgombrato il campo da totem, feticci e pregiudizi — un’intesa sul merito della riforma del lavoro è davvero a portata di mano, c’è da credere che Renzi finirà per spuntarla. Ma perché il mondo si convinca che il premier italiano non è un Benito Cereno, bisognerà che alla direzione del Pd convocata per lunedì Matteo Renzi prenda di petto i suoi avversari interni sbattendogli in faccia le proprie responsabilità e intimandogli di adeguarsi alle decisioni della maggioranza. Non c’è dubbio che lo farà, unendo così all’utile il dilettevole.