Lo si può considerare un segno di debolezza o un segno di intelligenza politica. Certo è che i toni ultimativi con cui Matteo Renzi tratta la materia del lavoro nascondono una sostanziale disponibilità alla mediazione. Il premier non punta infatti al muro contro muro e attraverso il ministro Poletti sta lavorando per conciliare le richieste della minoranza del Pd e i punti fermi cari al Nuovo centrodestra. I tre quarti di coloro i quali all’ultima direzione del partito si sono astenuti o hanno votato contro il documento della maggioranza aspirano infatti ad un accordo. In direzione, Renzi aveva ceduto sulla possibilità di reintegro in caso di licenziamenti disciplinari, consentendo così alla sinistra interna di celebrare l’avvenuto «passo avanti». Un ulteriore «passo avanti» sarà rappresentato dalla disponibilità a modificare la delega al governo con un emendamento che recepisca parte delle richieste della minoranza. L’obiettivo del premier coincide dunque con gli auspici del  filocgiellino Damiano: rendere «governabile» il dissenso. Si tratta di un’esigenza politica dovuta al fatto che i gruppi parlamentari del Pd sono stati eletti in epoca Bersani e non corrispondono dunque in blocco allo spirito renziano. Ma a guardare il merito del possibile accordo non è detto sia un male: l’impianto e il senso della riforma resterebbero infatti integri, un esplicito riferimento agli ammortizzatori sociali e al tema del demansionamento servirebbe a fare chiarezza e la possibilità d’essere reintegrati dal giudice in caso di licenziamento disciplinare ingiusto (da tipizzare per evitare forzature giudiziarie) appare tutto sommato di buonsenso. Se il licenziamento disciplinare è infondato, è, di fatto, discriminatorio. E nessuno, neanche Renzi, ha mai pensato di impedire il reitegro a chi è stato licenziato per, ad esempio, le proprie idee politiche o per i propri gusti sessuali. Inoltre, un licenziamento disciplinare, per quanto indennizzato economicamente, si trasformerebbe in un’onta per il lavoratore: un marchio di infamia che gli impedirebbe di trovare un altro impiego. Viene così il sospetto che l’apparente  rilancio di Renzi sul Tfr in busta paga sia soprattutto un modo per occultare il cedimento sul Jobs Act. Un problema di immagine, più che di sostanza.