Diciamo la verità, quando un governo arriva a, come usa dire, “battere i pugni” sul tavolo di Bruxelles significa che ha già perso. L’immigrazione, le banche, i gasdotti, i conti pubblici, l’Ilva: tutte le questioni che vedono l’Italia contrapporsi alla Commissione europea vengono decise ben prima di giungere al livello politico. Volendo incidere, occorre occupare quegli snodi vitali dove i dossier vengono istruiti. Occorre dunque presidiare i gabinetti dei commissari europei e le direzioni generali. E’ infatti lì che si annida il vero potere ed è lì che la rappresentanza italiana risulta marginale. La parte del leone la fanno i tecnici tedeschi, sistematicamente spalleggiati dai loro ascari finlandesi e olandesi. Il vero presidente della Commissione europea, ad esempio, non è il lussemburghese Jean Claude Juncker, ma il tedesco che gli fa da capo di gabinetto, il dispotico Martin Selmayr. L’uomo che ha appena “licenziato” l’unico italiano presente nello staff, il giurista Carlo Zadra. Possiamo indignarci finché ci pare, ma prendersela con i tedeschi in questo caso non serve a nulla. Peggio, è dannoso. Serve ad autoassolverci, ma ci impedisce di mettere a fuoco le nostre lacune per poi, eventualmente, porvi rimedio. Più proficuo sarebbe domandarsi perché l’Italia occupa posizioni marginali. La prima e più ovvia risposta è perché il nostro Paese conta oggettivamente meno della Germania. Il che è vero, ma è una verità parziale. In punto è che la Germania ha capito da tempo l’importanza delle tecnostrutture europee e da tempo lavora per permearle con personale qualificato e soprattutto fedele alla causa teutonica. I tecnici tedeschi fanno lavoro di squadra e sono in costante contatto con il loro governo nazionale. Gli italiani no. Per i tedeschi svolgere la funzione di parlamentare europeo è un onore, una professione per la quale vengono formati e alla quale non rinunciano. Per gli italiani è un ripiego, un purgatorio, una sciagura. E infatti spicchiamo sia per assenteismo sia per tasso di abbandoni. Significa che quando un nostro europarlamentare ha la possibilità di tornare in Patria per essere eletto a Montecitorio, al Senato, in un qualsiasi consiglio regionale o essere nominato nel Cda di un ente pubblico, non perde l’occasione e di gran carriera fa la valigia disperdendo così quel patrimonio di relazioni utili all’interesse nazionale che ha accumulato. Ammesso che, dal momento che molti di loro non parlano neanche l’inglese, sia stato in grado di accumulare qualcosa. Tra i tecnici italiani dislocati presso le istituzioni europee ce n’è di bravi, ma si sentono abbandonati a loro stessi. Vivono dunque in una condizione di frustrazione. I loro capi tedeschi li disprezzano in quanto italiani, i loro referenti italiani li ignorano e non ne sfruttano le potenzialità. C’è chi ha messo in guardia il governo Renzi sulla grana delle obbligazioni subordinate delle quattro banche italiane in via di fallimento ben prima che il problema esplodesse: è stato snobbato, salvo poi andarlo a cercare quando era ormai troppo tardi. Ne consegue che, per avere un ruolo e una prospettiva di carriera, diversi alti funzionari italiani fingono di essere più europeisti di Mario Monti e più tedeschi di Angela Merkel.

No, non è colpa della Germania se siamo italiani, come non è colpa delle formiche se quando arriva l’inverno le cicale muoiono di stenti.