C’era una volta lo spread. Per anni, gli anni più tesi della crisi economica, ci siamo quotidianamente interrogati sullo spread. “Come andrà oggi?”, è stato l’angosciante interrogativo di ogni mattina. E ogni mattina abbiamo compulsato i numeri del rapporto tra i titoli pubblici italiani e quelli tedeschi con l’attenzione e l’ansia un tempo riservate alle viscere ancora calde degli animali sacrificati in cerca di risposte. Con lo spread si sono messi in scacco gli Stati, grazie allo spread si sono rovesciati governi e sono state imposte politiche pubbliche. Politiche dolorose. Poi il silenzio, lo spread è passato di moda. Ma non per questo il sistema ha ucciso il suo baco; non per questo siamo tornati liberi. Grava ora sullo Stato italiano la spada di Damocle di un nuovo e più sottile spread: il bail-in. Ovvero il principio, varato dall’Europa e approvato da tutti e 28 gli Stati membri, in base al quale se una banca fallisce le conseguenze ricadono esclusivamente su azionisti, correntisti e creditori di quella banca. Come a dire: vado a giocare al casinò, ma se i conti di quel casinò non sono a posto rischio di perdere tutto anche se vinco. Questo è un fatto. Cui se ne aggiunge un secondo. Non avendo mai ricevuto aiuti di Stato, le banche Italiane in Europa sono tra quelle che detengono la percentuale maggiore di crediti deteriorati. Una massa di oltre 200 miliardi difficilmente esigibili perché prestati a soggetti incapaci di restituirli. E’ per questo che oggi, a Bruxelles, il sistema Italia viene giudicato più a rischio di altri. C’è poi un pericolo. La Germania sta premendo sul Comitato di Basilea affinché i titoli pubblici detenuti dalle banche vengano contabilizzati come beni di rischio. Se il pressing tedesco avesse successo, le banche italiane, nelle cui casse sono depositati circa 400 miliardi in titoli pubblici nazionali, dovrebbero realizzare importanti aumenti di capitale. E non tutte ce la farebbero. Ad oggi, non c’è motivo di temere che questo accada, ma la spada è e resterà lì, appesa sulle nostre teste. Il premier Matteo Renzi lo sa. Sa quello che rischia nel suo braccio di ferro con la signora Merkel e con le istituzioni europee. Non resterebbe che appellarsi alla Costituzione, che all’articolo 47 dice che la Repubblica “tutela il risparmio in tutte le sue forme”. Ma quell’articolo è ormai carta straccia, vanificato dalla riforma del Titolo V approvata dal centrosinistra con un pugno di voti nel 2001 a fine legislatura. All’articolo 117 si legge infatti che lo Stato italiano “esercita la potestà legislativa nel rispetto della Costituzione nonché dei vincoli comunitari”. Gli accordi europei contano perciò quanto la Carta fondamentale. Non c’è difesa, dunque. E a poco serve notare che, col voto contrario di Giulio Tremonti, il bail-in è stato approvato dal parlamento italiano praticamente all’unanimità. Nessuna obiezione di merito, nessuna richiesta di norme transitorie. Nessuna consapevolezza, si presume, della portata di quel voto. Un caso di incoscienza collettiva, un frutto avvelenato avvolto da un velo di intollerabile ignoranza.