La ‘ragazza in rosso’ divenuta emblema della protesta di piazza Taksim e di Gezi Park (foto Reuters)

 

 

Siamo seicento qui in Gezi Park. Seicento alberi. Siamo solo alberi, mi dico, guardandomi intorno: dal 31 maggio il parco dove abitiamo e la piazza qui accanto sono un tappeto di cuori e sogni. Mi chiedo perchè così tanta gente è qui per noi. Provo a chiederlo a mio fratello, qui a destra. Ma lui si limita a muovere  le fronde nel cielo impolverato di Istanbul. A destra, a sinistra. Segue una musica di pace: un pianista da qualche giorno ci sta tenendo compagnia. E’ arrivato con il suo pianoforte da lontano, per noi. E per loro. Lui suona, loro cantano. E’ un tipo buffo. E’ tedesco ma ha un nome italiano, Davide. Golia, invece, ha sparato cannonate d’acqua, gas lacrimogeni e proiettili di gomma, che fanno male come gli altri. Eppure tutte queste persone restano qui, con noi. Sono migliaia. Da quassù non li distinguo bene, ma sono in molti a portare strane maschere. Forse è un gioco?  L’altra sera c’è anche chi ha improvvistato un tango nella piazza che suda rivolta. L’abbraccio argentino come abbraccio di pace. E poi c’è qualcuno che se ne sta immobile come una statua. E che in silenzio dice tante cose. Perché ci amano tanto? Siamo solo alberi, in fondo. Potrei chiederlo a quella bambina laggiù. Sta stringendo la mano a una bella signora dal vestito rosso e dallo sguardo fiero. Si stanno dirigendo verso la polizia, armate di sorrisi. E adesso che la musica si è fermata un istante posso anche sentire i loro discorsi: mamma – dice la piccola, indicandomi – è quello l’albero che abbiamo chiamato libertà?